Uno degli aspetti più interessanti della memoria è la possibilità di condividerla, riutilizzarla, riportarla in vita. Si può ad esempio parlare di Peppino Impastato ripescando le parole, le immagini, i ricordi di chi l'ha conosciuto bene, essendogli amico al punto di averlo come testimone di nozze (nella foto di copertina Impastato è il primo da destra), ma oggi non può raccontarcelo direttamente, perché non c'è più. Si può dunque coltivare una memoria dentro l'altra, quella di Peppino, dentro quella di Salvatore.

Salvatore Lo Leggio è morto improvvisamente l'8 settembre 2019 e la sua morte è stata una perdita enorme per chi l'ha conosciuto, ascoltato, amato. Intellettuale acuto, militante della sinistra, prima in Sicilia, sua terra natale, e poi in Umbria. Scrittore, poeta, redattore del mensile Micropolis, e soprattutto insegnante di Lettere per una vita e poi attivista antimafia dentro l'associazione Libera, che definiva “punto di convergenza di associazioni e persone che insieme affermano valori e perseguono obiettivi comuni, pur riconoscendosi diversi”.

Salvatore Lo Leggio era un comunista, proprio come Peppino Impastato. Nel 1968 militavano insieme in un gruppo chiamato Lega dei Comunisti marxisti-leninisti, che si caratterizzava per il sostegno alla cosiddetta sinistra maoista. “Ci entusiasmavano – racconterà Salvatore molto tempo dopo – i discorsi di Chang Ching e Lin Piao e gli slogan come Ribellarsi è giusto Osare pensare, parlare, agire”. Peppino, poi, era appassionato di Marcuse, “insisteva sul fatto che la contestazione o era globale o non era – scrive ancora Lo Leggio - Lo contraddistingueva una volontà di incidere sulla realtà, anche nel suo paesino arretrato e mafioso, mentre io preferivo il movimento universitario, i dibattiti ideologici”.

Ecco, l'essere comunista di Peppino è un aspetto che si è andato sbiadendo in quel processo – certamente meritevole e guidato dalle migliori intenzioni – di costruzione dell'icona Impastato come eroe dell'antimafia. In vari articoli scritti nel corso degli anni, invece, Salvatore Lo Leggio lo ha sempre rivendicato: “Peppino si sentiva (ed era) un rivoluzionario, uno che mette tutte le energie, al limite la stessa vita, al servizio di una causa. ... La mafia non era per lui solo un cancro da estirpare, ma la manifestazione estrema e, al tempo stesso, più significativa di un potere, quello borghese, che sistematicamente violava gli stessi principi che proclamava. Peppino si serviva del giornalismo come mezzo e allo stesso modo avrebbe usato, se i sicari di Badalamenti glielo avessero consentito, la tribuna del consiglio comunale. Ma il mestiere che aveva scelto non era di giornalista o di politico, ma di comunista. Questa cosa è oggi difficile da dire e per i giovani quasi impossibile da capire, ma così era”.

Secondo Lo Leggio, dunque, era (ed è) del tutto improprio definire Peppino eroe della “legalità”. “Di sicuro voleva in galera gli assassini, i mafiosi e i loro complici, ma non pensava affatto che forze di polizia e magistrati (per di più in uno Stato borghese) potessero da soli sconfiggere la mafia e si richiamava, nel suo originale marxismo, ai Fasci siciliani, ai movimenti contadini e operai dell’isola”. “Contro la mafia lotta di classe” era lo slogan che Peppino e Salvatore gridavano, ancora ventenni, alle manifestazioni di allora.

La memoria di Peppino dentro quella di Salvatore assume dunque i contorni di una orgogliosa richiesta di verità: “Una volta o l’altra bisognerà trovare il coraggio di proclamarlo – scrive ancora Lo Leggio - il comunismo del ventesimo secolo non fu solo un potere ferreo e criminoso, ma anche un poderoso strumento di riscatto delle moltitudini, fu speranza, fede che si testimonia fino al martirio. E lo fu anche di più in comunisti come Peppino, eretici che contestavano la Chiesa”.