Guardare oltre il 2026, a un orizzonte più lontano, che arrivi almeno fino al 2030. E poi non trascurare i giovani e le donne, fondamentali per superare i divari, target cosiddetti trasversali su cui però si sta andando in deroga. C’è preoccupazione sulla realizzazione dei progetti del Pnrr da parte del Forum del terzo settore, che insieme a Openpolis ha realizzato un report per analizzare investimenti e misure previsti dal Piano di ripresa e resilienza italiano.

Varato dopo la pandemia, per dare al Paese gli strumenti per recuperare terreno a seguito dello tsunami economico e sociale provocato dal Covid, su alcune sfide sta arretrando, soprattutto su quelle che riguardano i soggetti più fragili: “Per questo sollecitiamo un maggiore protagonismo e chiediamo un approccio di coprogettazione e coprogrammazione – afferma la portavoce del Forum, Vanessa Pallucchi -. Si sta giocando una grande partita e noi questa partita non la vogliamo sprecare”.

Che cosa manca per la cosiddetta messa a terra dei progetti?
Innanzitutto un maggiore coinvolgimento dei corpi intermedi, a cominciare dai soggetti di rappresentanza, anche a livello territoriale, per fare in modo di dare un contributo e un sostegno a quelle realtà in difficoltà nel costruire servizi. È emblematico il caso degli asili nido nel Sud Italia, dove queste risorse non si riesce a capitalizzarle.

Quindi, che cosa propone?
Quello che raccomandiamo è di aprire tavoli territoriali che consentano una progettazione e un’integrazione condivise per la pianificazione e la gestione delle risorse, che vanno integrate. Occorre restituire ai cittadini l’accesso ai diritti, dare risposte pubbliche nell’ambito del welfare e della sanità, settori che stanno vivendo una dismissione e un impoverimento, con passi indietro sulla qualità della vita e sull’aspettativa di benessere delle persone. Il Pnrr non nasce con l’obiettivo di lavorare nel mio giardino ma per cambiare paradigma di sviluppo e dare risposte finora inevase ai bisogni emergenti.

Tante associazioni laiche e cattoliche del terzo settore, firmatarie dell’appello Insieme per la Costituzione, si sono alleate con la Cgil nella grande manifestazione del 24 giugno scorso a Roma, per il diritto alla salute e per la sicurezza nei posti di lavoro. Quanto è importante una comunione di intenti della società civile per riuscire a realizzare una società più giusta e un cambio di paradigma?
Dobbiamo ripristinare il dialogo sociale. Molte delle nostre organizzazioni hanno aderito a questa iniziativa sulla questione centrale della sanità pubblica ed è davvero importante creare un asse trasversale, che non è un posizionamento di carattere ideologico ma l’emersione dei bisogni reali delle persone, che in questo momento rappresentano il freno più grande: non dare risposte significa ostacolare le opportunità di crescita del nostro Paese. Certo, non è stato premiante avere tre diversi governi che non hanno dato importanza alla continuità che poteva rappresentare un serio e vero coinvolgimento dei soggetti sociali, associazioni e sindacati, per costruire un filo rosso, nell’interesse del Paese e per la lettura concreta dei bisogni.

Filo rosso che si sta cercando di costruire adesso.
Questo è un lavoro che noi corpi intermedi non dobbiamo abbandonare, c’è una crisi sociale e di partecipazione e lo abbiamo visto alle ultime elezioni. Molto spesso quando vediamo il lavoro che fanno i corpi intermedi vediamo la tenuta del Paese, una tenuta dei nostri valori costituzionali. È molto importante che anche se non veniamo convocati dalle istituzioni, costruiamo dei tavoli per confrontarci e riuscire a raggiungere insieme obiettivi comuni di partecipazione.

Le organizzazioni del no profit in Italia sono oltre 363 mila, con 870 mila lavoratori e più di 4,6 milioni di volontari. Quale contributo può dare questo settore alla costruzione di una società più giusta?
Sicuramente un contributo per la facilitazione delle opportunità e l’avvicinamento ai bisogni dei cittadini. Il terzo settore è sul campo e tocca con mano ogni giorno ed è vicino alle categorie dei più fragili, senza fissa dimora, anziani, disabili. In tutti questi anni si è sporcato le mani provando a innovare i servizi, a integrare pubblico e privato, in un’ottica di sussidiarietà e non di sostituzione.

Dopo la pandemia registriamo 6 milioni di poveri, 3 milioni di neet, giovani che non studiano e non lavorano. A tutto questo possiamo dare una risposta se questa è integrata a un rilancio delle politiche pubbliche in campo sociale. Ma di queste politiche vediamo una costante erosione e il terzo settore ne risente profondamente.

Quello avviato a giugno è l’inizio di un percorso di rivendicazioni su lavoro, precarietà, salari che vedrà la Cgil e il mondo dell'associazionismo nuovamente in piazza a Roma il 30 settembre, anche in difesa della Costituzione. Quanto precarietà e stipendi miseri contribuiscono ad acuire e approfondire le disuguaglianze?
Stiamo assistendo a un fenomeno che prima non conoscevamo. Si stanno impoverendo le persone che lavorano. Si sta perdendo la capacità di avere una vita dignitosa e normale pur avendo un lavoro. Che il potere di acquisto dei cittadini sia crollato lo vediamo in tante occasioni, non ultima il rincaro dei mutui. Questo vuol dire che qualcosa non funziona nel livello salariale nel nostro Paese.

Poi ci sono le carenze del welfare, che hanno un ruolo determinante.
A complicare la situazione è la crisi del welfare di cui parlavamo. C’è una ricchezza comune che è rappresentata dall’accesso ad alcuni diritti di base: scuola di qualità, sanità che funziona, servizi pubblici. Questi diritti non sono garantiti a tutti. Le liste d’attesa per avere una prestazione sanitaria ne sono un esempio. Se un giovane o una famiglia ha una necessità di carattere sociale, se la vive sulle proprie spalle, perché non ottiene risposte dal welfare. Questa è una perdita di ricchezza che contribuisce a impoverire le persone.

Che cosa bisognerebbe fare, allora?
Da un lato rivendicare salari più dignitosi, dall’altro ripristinare le opportunità e i diritti che sono sanciti in maniera forte dalla nostra Costituzione, l’unica tra quelle dei Paesi occidentali, che su questo ha davvero fatto scuola.