Il 7,13 per cento del suolo italiano è coperto da case, costruzioni, strade. Sembra poco e invece è tantissimo, soprattutto per un territorio fragile come il nostro, soggetto a frane, cedimenti, terremoti, e sempre più a rischio a causa degli eventi meteorologici estremi. Se poi lo confrontiamo con il resto dell’Europa abbiamo la misura del divario: la media nel Vecchio continente è del 4,2 per cento.

Il fenomeno non si arresta, anzi cresce: basti dire che nel 2006 era pari al 6,75 per cento, che nell’ultimo anno ci siamo giocati 63 chilometri quadrati, cioè un territorio grande come Mantova o Pavia, che in quindici anni le aree edificate sono aumentate di 1.153 chilometri quadrati, quanto tutto il comune di Roma.

Più costruzioni, meno abitanti

“Questo accade nonostante siamo un Paese a decrescita demografica – afferma Michele Munafò, responsabile scientifico dei rapporti sul consumo di suolo dell’Ispra -: prevedere nuove costruzioni potrebbe essere motivato dall’aumento della popolazione ma qui siamo in presenza di una riduzione. E intanto i piani urbanistici delle città prevedono grandi aree di espansione, zone edificabili che non sono state ancora realizzate, un’eredità storica, oltre alle trasformazioni illegittime del territorio, ovvero le costruzioni abusive”.

Le due Italie

A differenza di quanto avviene nel Nord Europa, da noi si è perso il limite tra ambiente urbano e rurale, tra città e campagna, e quindi in molti casi si è continuato a costruire anche invadendo gli spazi della natura. D’altra parte è come se l’Italia fosse divisa in due: da un lato quella con le aree interne, montane e collinari, con i boschi che sono aumentati, e dall’altro una fatta di pianure, fondo valli e coste, dove si concentra il consumo di suolo e dove le pressioni delle infrastrutture sono molto elevate.

Monza e Brianza, Napoli e Milano sono le province con la maggiore quota di suolo consumato, rispettivamente con il 40,7, il 34,6 e il 31,7 per cento, un primato che si è consolidato negli ultimi 15 anni.  Lombardia, Veneto, Campania, Emilia Romagna le regioni con la maggior quantità di superficie impermeabilizzata.

“Tra le cause c’è l’elevata frammentazione della gestione da un punto di vista amministrativo e la tendenza ad assecondare la rendita fondiaria immobiliare – prosegue Munafò -: gli 8 mila comuni hanno la competenza sulla gestione dei propri piani urbanistici. Non si può affrontare il consumo di suolo con una politica settoriale, ma con un governo del territorio più ampio. Abbiamo una legge urbanistica del 1942, poi ogni regione ha la propria, ci sono regioni con norme più efficaci e altre che hanno strumenti meno efficaci”.

Impatti su impatti

“Gli impatti di questo consumo irrefrenabile si misurano nelle città a più alta densità - spiega Simona Fabiani, responsabile delle politiche per il clima, il territorio e l'ambiente, trasformazione green e giusta transizione della Cgil -, dove gli spazi residui sono molto limitati, con incrementi delle temperature superiori rispetto alle aree rurali fino a più 3°, che danno vita al fenomeno delle isole di calore e all’aumento della mortalità correlata nelle fasce più fragili della popolazione. Il consumo di suolo, accompagnato dal suo degrado, causa la perdita di servizi ecosistemici: produzione agricola e di legname, stoccaggio di carbonio, contrasto all’erosione e alla desertificazione, regolazione del microclima, rimozione di particolato e ozono, disponibilità e purificazione dell’acqua, regolazione del ciclo idrico, qualità degli habitat e degli ecosistemi”.

Per non parlare dell’impatto sulla biodiversità, che ci garantisce la fertilità del suolo e la produzione di alimenti: in un cucchiaino da caffè di terra ci sono più organismi di quante persone abitano questo Pianeta. E poi il degrado del paesaggio, che è un bene preziosissimo deteriorato da edifici di scarsa qualità dispersi sul territorio.

Tanti tipi di rischio

Poi ci sono le conseguenze legate agli eventi cosiddetti estremi. “Uno degli effetti negativi del consumo di suolo è l’aumento del rischio di dissesto idrogeologico, di allagamenti e di inondazioni, in Italia sempre più frequenti, che sono causati da una maggiore impermeabilizzazione del suolo – afferma Andrea Minutolo di Legambiente -. Si parla tanto di mitigazione e di adattamento come chiave strategica per la pianificazione, da mettere al centro delle politiche di gestione e tutela. Ma dove sono queste azioni? L’esperienza ci insegna che come è accaduto a Ischia, dopo i danni, i morti, il clamore mediatico, spenti i riflettori questi territori vengono abbandonati a loro stessi. E invece bisognerebbe partire proprio dai fenomeni alluvionali per ridare naturalità alle aree del nostro Paese”.

La questione si pone anche per l’Emilia Romagna, dove l’11, 6 per cento della superficie regionale è classificato dall’Ispra a elevato rischio idrogeologico, il 45,6 a rischio medio. E se costruiamo in queste zone c’è una maggiore probabilità che si verifichi un evento disastroso come un’alluvione, come quello che ha colpito la regione a maggio.

Costi nascosti

“In Italia nel 2019 il territorio degradato è stimato al 17 per cento, le bonifiche e il risanamento ambientale delle aree contaminate sono ancora drammaticamente ferme al palo con gravi conseguenze sull’ambiente e sul sistema produttivo ma soprattutto sulla salute e sulla mortalità di chi vive e lavora in quelle aree – dice ancora Fabiani -. I ‘costi nascosti’ del consumo di suolo stimati dall’Ispra sono di otto miliardi di euro all’anno, che potrebbero arrivare a un costo complessivo tra il 2012 e il 2030 compreso fra i 78,4 e i 96,5 miliardi all’anno”.

Una risorsa senza tutela

Mentre siamo molto lontani dal raggiungere l’obiettivo della land degradation neutrality previsto dall’Agenda Onu 2030, a livello europeo manca un regolamento specifico ma a luglio la Commissione dovrebbe presentare una nuova proposta di direttiva, dopo quella del 2006 che è stata ritirata nel 2014. Anche in Italia le legge di contrasto al consumo di suolo è ferma in parlamento.

“Da anni la Cgil chiede una misura che si inserisce nella più generale rivendicazione di un radicale cambiamento del modello di sviluppo - conclude Fabiani -, che metta al centro il benessere delle persone e del pianeta, la piena e buona occupazione, la giustizia climatica e sociale, superando la logica della ricerca di una crescita infinita finalizzata solo alla massimizzazione dei profitti. Serve un ruolo forte dello Stato in economia ma anche un’iniziativa economica privata che non può esercitarsi a danno dell’ambiente e della salute”.