Solo conferme, purtroppo, dal tradizionale Rapporto AlmaLaurea sul profilo dei laureati italiani e sulla condizione occupazionale dei laureati stessi: troppi in fuga verso i Paesi stranieri, stipendi più bassi della media europea, peso crescente delle origini sociali nelle carriere universitarie e, in generale, scarsi investimenti nell’istruzione terziaria. È il quadro desolante di un Paese che sembra non credere nel proprio futuro e che, anzi, pare remare contro sé stesso.

Fuga all’estero

Se è vero che complessivamente chi se ne va è al di sotto del 5%, il dato inquietante è se andiamo a vedere le specifiche disciplinari: questa percentuale sale infatti all’11,3% nei settori Ict e nelle materie Stem, quelle scientifiche e tecnologiche (10,3%). Senza nulla togliere alle altre discipline, si tratta di ambiti fondamentali per uno sviluppo di qualità che non si accontenti di competere sui segmenti bassi del mercato del lavoro.

Le ragioni le ha ben spiegate la direttrice di AlmaLaurea Marina Timoteo: “Negli ultimi anni i laureati sono sempre meno disposti ad accettare lavori non coerenti con il proprio titolo di studio e sempre più cercano occupazioni che favoriscano l'equilibrio vita-lavoro o che sostengano valori di utilità sociale. Ora dobbiamo ascoltare la loro voce”.

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Se il 45,4% dei laureati è disponibile a lavorare all’estero, le ragioni di chi lo ha già fatto sono abbastanza indicative dello stato del mercato del lavoro in Italia: un terzo degli intervistati è emigrato perché qui non c'erano opportunità, o comunque non erano adeguate al proprio profilo. E poi la sentenza: più del 70% ritiene improbabile un rientro a casa. Insomma: uno spreco netto di risorse che il Paese ha investito per formare i suoi giovani e che in questo modo trasferiscono saperi e competenze altrove.

D’altra parte, per quanto laurearsi dia più chance di trovare un lavoro e di guadagnare di più, il gap con le retribuzioni a cui si può aspirare all’estero resta significativo: a un anno dalla laurea superano i 2.000 euro netti mensili (il 54% in più che da noi) e a 5 anni toccano i 2.900 euro (+61,7%). Anche se, va sottolineato, non si tratta soltanto di denaro ma di opportunità di crescita e miglioramento professionale. Pesa sicuramente anche il “disallineamento”, visto che il 30% degli intervistati a un anno dalla laurea utilizza solo molto parzialmente le competenze acquisite e spesso svolge un lavoro per il quale la laurea non è nemmeno richiesta.

Cambiano le aspettative sul lavoro

Le aspettative rispetto alla propria occupazione negli anni sono cambiate, si legge nel Rapporto: “Fra gli aspetti ritenuti decisamente rilevanti, quello che interessa di più è da tempo l’acquisizione di professionalità, indicata dal 76,8% dei laureati. Assai rilevanti (percentuali superiori al 60%) anche la richiesta di stabilità del posto di lavoro (72,6%), la possibilità di guadagno (71,4%), la possibilità di fare carriera (70,8%), l’indipendenza o autonomia nel lavoro (64,5%) e la possibilità di utilizzare al meglio le competenze acquisite (60,5%)”. Inutile sottolineare come su molti di questi aspetti l’Italia attualmente sia piuttosto indietro. Si spiega così quel 70% di chi, andatosene, non ha alcuna intenzione di tornare indietro.

Il gap sociale

C’è un altro aspetto che purtroppo l’indagine conferma: il peso delle origini familiari. “Da anni AlmaLaurea evidenzia come la popolazione dei laureati provenga da contesti socio-culturali relativamente più favoriti rispetto alla popolazione italiana – si legge nel Rapporto –, a conferma del permanere dei forti divari nell’accesso all’istruzione di terzo livello”.

Infatti, “considerando congiuntamente i livelli di istruzione dei padri e delle madri dei laureati analizzati da AlmaLaurea, si osserva che il 32,2% ha almeno un genitore con un titolo di studio universitario (nel 2014 era il 28,0%)”. Quest’ultimo dato conferma come negli ultimi dieci anni la situazione sia addirittura peggiorata. Molto significativo ciò che accade nelle professioni: oltre il 40% dei laureati in giurisprudenza, medicina e farmacia ha un genitore che fa quel mestiere.

Siamo indietro

Sono, come si diceva, dati non nuovi e che il Rapporto – non certo sospettabile di estremismo – inserisce in un quadro che non è dei migliori per l’istruzione terziaria nel nostro Paese. “L’Italia – scrivono i ricercatori – sconta ancora un forte ritardo nei livelli di scolarizzazione sia per la popolazione in età adulta sia per quella più giovane. Nel 2024, nella fascia di età 25-34 anni, la quota di laureati per l’Italia è del 31,6%: la posizione occupata dal nostro Paese nel confronto europeo rimane a fondo scala, davanti solo alla Romania”.

Va ricordato che uno degli obiettivi strategici dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile adottata è quello di raggiungere entro il 2030 una quota di laureati fra la popolazione di 25-34 anni del 45%, obiettivo rispetto al quale siamo lontanissimi. AlmaLaurea sottolinea anche la quota dei Neet (Not In Education, Employment or Training) che, nel 2024, rappresentano in Italia il 15,2% dei giovani, quota decisamente superiore alla media europea dell’11%.

Una situazione grave, ad aggravare la quale, denuncia il rapporto, i modesti investimenti nell’istruzione di terzo livello: l’Italia vi destina solo l’1,0% del proprio Pil (dato stabile nel tempo), nettamente distaccata dai principali Paesi europei e dalla media Ocse”. Insomma: per recuperare i ritardi dovremmo fare di più e, invece, facciamo (molto) meno. Per esempio, continuiamo a tagliare il Fondo di finanziamento ordinario delle università