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Dodici anni fa nel mare davanti a Lampedusa annegarono 368 uomini donne bambini, almeno 20 furono i dispersi nella più grande tragedia delle migrazioni che si ricordi in Italia. Da allora altre centinaia di persone sono morte nel Mediterraneo che attraversavano alla ricerca di un futuro migliore.
Chi nel proprio Paese muore di fame, conosce la violenza della guerra o della miseria, ancora si avventura per deserti e per mare avendo il miraggio dell’Europa come continente di accoglienza e di futuro: basti pensare che questa notte, nonostante il mare ingrossato e minaccioso, in 30 sono arrivati a Lampedusa andando ad ingrossare il numero degli “ospiti” del centro di accoglienza sull’isola, ormai circa ottocento. E ancora muoiono.
Come ogni anno da quel 3 ottobre del 2013 i superstiti, i familiari delle vittime e tantissimi ragazze e ragazzi si sono dati appuntamento a Lampedusa per celebrare la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza. Il Comitato 3 ottobre ha deciso di caratterizzare a giornata di oggi “con una riflessione profonda e collettiva sul concetto di eredità: non solo come lascito simbolico, ma come diritto all’identità, alla memoria e alla giustizia”. Ed è per restituire dignità anche ai morti che da allora c’è un impegno preciso: quello di riconoscere chi è morto per restituirgli appunto identità e quindi relazioni e legami. “Identificare i corpi delle persone migranti scomparse non è solo un atto tecnico: è una scelta politica ed etica, un atto di giustizia, un’azione di resistenza contro l’oblio”.
Dal 2014 giovani provenienti da 25 Paesi dell’Europa ogni anno si danno appuntamento sull’isola con “l’obiettivo di promuovere nelle giovani generazioni europee occasioni di apprendimento – nella prospettiva dell’educazione interculturale e transculturale – per favorire una cultura dell’accoglienza e della solidarietà al fine di contrastare intolleranza, razzismo e discriminazione e incoraggiare processi d’inclusione e inserimento sociale delle persone migranti”.
Moltissime le testimonianze che si sono susseguite in queste ore a Lampedusa, per parlare appunto di eredità e memoria con i ragazzi e le ragazze: da Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre, ad Angela Caponetto, giornalista di Rai News; da Claudia Pratelli assessora del Comune di Roma a Lino Guanciale, attore; da Deepika Salhan attivista impegnata per cambiare la legge sulla cittadinanza a Monica Minardi presidente di Medici senza frontiere; da Valentina Brinis portavoce di Open Arms, a Julia Black di Missing Migrants Project Officer - Global Data Institute (GDI) International Organization for Migration, solo per citarne alcuni.
Valentina Brinis, advocacy officer di Open Arms, ha ricordato: “Subito dopo la tragedia del 2013, il governo dell'epoca avviò una missione statale di ricerca e soccorso, impegnandosi direttamente a salvare vite. Oggi quell'impegno appare come un miraggio ed è divenuto persino terreno di divisione”. “Siamo qui a Lampedusa per ribadire che il Mediterraneo deve tornare a essere un luogo di pace e di incontro, non lo scenario di un film western”.
A ricordare quanto il Mediterraneo sia, purtroppo ancora, mare di morte è stato il presidente della Croce Rossa italiana Rosario Valastro che ha affermato: "Da Lampedusa a Cutro, per arrivare fino alle stragi nel mare che in tutto il mondo hanno distrutto e distruggono speranze e sogni, ripartiamo per restituire dignità all'accoglienza, per ribadire la centralità di ciascuna vita spezzata proprio in quei viaggi che dovrebbero dare un presente e un futuro migliori a chi soffre a causa di guerre, disastri, crisi sanitarie. L'umanità è l'unico fattore che conta e che può aiutare la comunità internazionale e i media che si occupano di migrazioni a superare la logica dei numeri e a focalizzarsi sulle persone".
“Dieci anni dopo il naufragio dell'Isola dei Conigli - ha aggiunto Valastro -, quanto accaduto a Cutro ci ha riportati prepotentemente davanti a un fatto incontrovertibile: per far sì che queste stragi possano essere evitate, è necessaria una risposta globale, costruita sulle esigenze delle persone. Solo rispondendo ai bisogni e guardando alle cause che spingono migliaia di persone a rischiare il tutto per tutto in pericolose traversate via mare, riusciremo a salvare le vite di migliaia di donne, uomini, bambine e bambini che vedono nella migrazione l'unica via”.
Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli ha dato voce alla sua amarezza. “Oggi - dice - celebriamo il 3 ottobre mentre continuano a infuriare guerre che costringono migliaia di persone a fuggire e non blocchiamo, ipocritamente, il traffico di armi. Oggi celebriamo il 3 ottobre mentre migliaia di persone non riescono a lasciare la propria terra, teatro di morte, e non le si aiuta neppure ‘a casa loro’, impedendo che aiuti umanitari arrivino a destinazione. Oggi, 3 ottobre, dobbiamo fare memoria perché non si ceda alla logica dell'indifferenza globale''. Padre Ripamonti ha anche voluto ribadire quali le “cose da fare”: “Attivare vie legali per garantire accesso alla protezione e sconfiggere così il traffico di migranti; accogliere dignitosamente, attraverso progettualità diffuse volte a una reale inclusione, le persone richiedenti asilo e rifugiate sul territorio italiano, secondo le leggi nazionali e internazionali, garantendo a tutti maggiori diritti e non alimentando odio e conflittualità”.
Come era inevitabile e anche giusto, la cerimonia di quest’anno, oltre a ricordare le 368 vittime ha costruito un ponte ideale con Gaza, terra di morti senza nome e senza identità.