Alla Bolognina Achille Occhetto parla solo sette minuti. È il 12 novembre 1989, il muro di Berlino è caduto pochi giorni prima e quello che per il partito comunista doveva essere un semplice discorso di circostanza per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario di una battaglia della Resistenza, sarà invece un momento storico che segnerà il passaggio dal Pci al Pds.

“Era il 9 novembre 1989 ed ero a Bruxelles per incontrare il leader laburista Neil Kinnock - raccontava Occhetto in un’intervista a Repubblica - Rimanemmo ipnotizzati di fronte alle immagini televisive che giungevano da Berlino. Stavano picconando il Muro. Dissi subito ai giornalisti: Qui non crolla soltanto il comunismo, ma tutto il Novecento”.

Lo scioglimento del Partito

Nel febbraio del 1991 - nonostante le importanti opposizioni - con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti, il Pci - fondato il 21 gennaio 1921 - decreta il proprio scioglimento al termine di un percorso avviato nel Comitato centrale del 20 novembre 1989.

“L’emozione rispetto alla sorte del nome 'comunista' - scriveva quella sera Pietro Ingrao - non è un lamento di 'reduci'. È un grumo di 'vissuto', di esperienza sofferta di milioni d'italiani che intorno a questo nome hanno combattuto non solo battaglie di libertà - che sono state condotte anche da altri che io rispetto - ma hanno visto la tutela dei più deboli, come patrimonio sepolto da valorizzare”.

“Io non mi vergogno di questo nome - dirà Pajetta - né della nostra storia, e non lo cambio per quello che hanno fatto quelli là. Se cambiamo nome, cosa facciamo, il terzo partito socialista? Io dico soltanto che quando Longo mi mandò da Parri per costituire il comando del Cln, né Parri, né altri mi chiesero di cambiare nome, ma soltanto di combattere insieme”.

La "sciagurata" decisione

Raccontava qualche anno fa Luciana Castellina:

Poiché io giro molto per l’Europa mi capita di sentirmi ancora chiedere: “Ma perché fu sciolto il Pci?”. È una domanda che non proviene solo dalla sinistra cosiddetta radicale, ma persino dai socialdemocratici, a molti dei quali la cosa continua ad apparire una follia. Non so se in questo trentennale dell’evento Achille Occhetto si interroghi su quella sciagurata decisione di cui è stato il principale fautore, e con lui tutti coloro che l’hanno condivisa. Sarebbe una riflessione autocritica tutt’ora necessaria, anzi - a fronte del pessimo stato attuale della sinistra italiana - oggi tanto più indispensabile. Non perché sarebbe stato giusto conservare quel partito com’era alla fine degli anni ’80: bisognava cambiarlo nel profondo, e figuratevi se una come me che dal Pci fu radiata nel ’69 per via della vicenda del Manifesto, potrebbe pensare il contrario. Il punto è un altro: cambiare il nome del partito (che equivaleva a scioglierlo, perché farlo significava delegittimarne il passato) ha inferto un colpo durissimo a centinaia di migliaia di compagni, a un corpo certo ferito dalle pessime scelte compiute negli ultimi tempi e indubbiamente anche dall’esito tristissimo dell’esperienza sovietica, e che però era ancora vivo e militante. Dovrebbe ben far riflettere il fatto che fra il primo congresso, quello dell’’89 a Bologna che lanciò la proposta, e il secondo, a Rimini nel gennaio ’91, che la ratificò, ben 400.000 compagni abbandonarono ogni forma di attività politica: non solo non si iscrissero al nuovo partito partorito, il Pds, ma nemmeno a Rifondazione comunista. Sono semplicemente andati a casa, disillusi, amareggiati, come qualcuno cui è stata spezzata la spina dorsale.

“In questa annata di memoria del centenario del Pci, defunto già trent’anni fa - tornava a scrivere Luciana lo scorso anno - mi è capitato di rileggere molte cose e pensarne altrettante. E ho trovato che la definizione più esatta del partito nello scorcio postbellico - ovvero nei decenni migliori e più significativi - è quella che diede Jean-Paul Sartre, curioso e attento conoscitore del nostro Paese. Sartre si pronunciò così: 'Finalmente ho capito cosa è il Pci: è l’Italia' (…) Io sono abbastanza vecchia per aver vissuto quegli anni di costruzione del Pci come un grande partito (aveva quasi due milioni di iscritti); un partito che non aveva leader affabulatori ma difficili intellettuali: da Palmiro Togliatti, che sembrava un professore, a Enrico Berlinguer che, come sentii dire da una donna desolata accanto a me al suo funerale 'parlava così male che si vedeva che era sincero!'. Il contrario del populismo, insomma. Vedere crescere i nuovi quadri nelle sezioni, dove l’alfabetizzazione si faceva a partire dalla lettura di un giornale difficile come l’Unità, e vederli diventare protagonisti nel loro territorio, insieme a me che sapevo leggere ma non sapevo niente del mondo reale: è qualcosa per cui sarò sempre grata al Pci, nonostante i suoi tanti errori successivi (…). Si può ripetere quell’esperienza? Certamente no. (…) E però, santiddio, non potremmo guardarci allo specchio e assumerci le colpe anche nostre nell’aver, alla fine, accettato una modalità della politica che ha svuotato la democrazia, fatta oggi di proteste di strada e battibecchi parlamentari? ”.