L’Istat, con il report del 22 settembre, ha confermato dati per il futuro che accentueranno un progressivo disastro demografico, già in atto nel nostro Paese. Nonostante la giusta cautela utilizzata sulle previsioni a più lungo termine (2070), anche nel caso più favorevole, un calo di milioni di residenti è pressoché certo. Valutando le previsioni più ravvicinate (a 10 e 20 anni), il calo della popolazione è comunque vertiginoso: -1 milione nel 2030 e -5 milioni nel 2050, con un’emergenza nell’emergenza che riguarda il Mezzogiorno.

Il calo, fino al 2030, riguarda sostanzialmente il Sud (-1 milione) che nel 2050 restringerebbe la sua popolazione a 16,6 milioni di abitanti (-3,4 milioni rispetto al 2021 su un calo totale del paese di 5 milioni). È come se una delle più grandi regioni del Mezzogiorno sparisse dalla cartina geografica. Una progressiva desertificazione che amplierebbe in modo drammatico tutti i problemi sociali, economici e produttivi di quest’area del Paese e che non tiene probabilmente pienamente in conto dell’incremento dei flussi migratori verso il Nord e verso l’estero che in quella situazione aumenterebbero.

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Popolazione in età da lavoro: i dati peggiori

Avevamo, come Fondazione Di Vittorio, stimato questa prospettiva anche da una particolare ma decisiva condizione: quella della popolazione in età da lavoro. Le nostre elaborazioni basate sui dati Istat stimano a 20 anni una riduzione della popolazione in età da lavoro molto più marcata di quella del totale della popolazione (nel 2042 -6,8 milioni di persone nella fascia di età 15-64 anni), perché riflette il progressivo invecchiamento di lavoratori già oggi mediamente concentrati su età mature. È previsto infatti un aumento di over 64 in questo lasso temporale di +4,9 milioni di persone.

Possono apparire problemi lontani ma sono invece di strettissima attualità. Inoltre per la popolazione in età da lavoro è importante osservare le statistiche non solo in termini percentuali ma anche assoluti: infatti, l’incremento del tasso di occupazione dal 59 per cento (febbraio 2020) al 60,3 per cento (luglio 2022) è determinato solo in parte dall’aumento degli occupati (+130mila) e –invece ­– in modo non trascurabile dalla contrazione della popolazione in età lavorativa (-637mila). Con questa tendenza, le difficoltà nel trovare manodopera che alcune imprese sollevano, oltre che ad essere basate su salari e condizioni di lavoro che giustamente molte persone non accettano più, si accentueranno anche per via di una diminuzione di persone in età lavorativa.

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Un futuro insostenibile?

Così si prospetta un futuro insostenibile. Il declino demografico, soprattutto in queste quantità, è lo specchio di un Paese che avvizzisce su se stesso, che non sarebbe in grado di garantire crescita, sviluppo e produzione adeguate; di avere le risorse pubbliche necessarie per reggere il nostro modello di welfare, peraltro in parte da riprogettare sulla base dell’aumento dell’età delle persone.

Non possiamo certo arrenderci e, quindi, occorre interrogarsi ma soprattutto agire per mitigare e progressivamente invertire queste tendenze. Ogni ritardo è colpevole perché, come i dati dimostrano, la percentuale di riduzione si incrementa anno dopo anno.

Non esiste, ovviamente, un’unica leva di intervento ma più meccanismi sui quali agire contemporaneamente, sapendo che produrranno risultati in periodi temporali diversi, ne prendo fra i molti possibili, in esame due.

La natalità

Il primo è quello delle politiche a favore della natalità. Servono atti concreti e prospettive diverse per intervenire su un problema che attiene comunque alla libera scelta delle persone e che, causa le tante avversità di questi anni, ha già consolidato un cambiamento di atteggiamento.

L’aggravarsi degli scenari sanitari, economici, sociali e a maggior ragione le guerre, ha sempre svolto un ruolo importante nelle scelte fondamentali come la natalità, provocando picchi particolarmente negativi del saldo naturale. Il problema parte ben prima, ma se prendiamo ad esempio solo gli ultimi 15 anni in cui si riscontrano due crisi economiche e finanziarie, la pandemia, la guerra in Ucraina, possiamo osservare il calo in maniera evidente.

Sono tutti eventi che hanno fra l’altro impoverito la popolazione, drasticamente peggiorato la qualità del lavoro, creato una forte preoccupazione verso il futuro; elementi che incidono pesantemente sulla fiducia e sulle conseguenti scelte dei cittadini portando i nuovi nati a scendere sotto il numero dei 400 mila annui.

Non basterà quindi fare cose concrete per invertire il trend, ma cose concrete sono decisive e necessarie a partire dalle politiche di conciliazione, dai servizi, dagli interventi di sostegno economico che, ad esempio, attuati in Germania, in 10 anni hanno attenuato la dinamica del decremento delle nascite. Quella tedesca era una dinamica peggiore della nostra e adesso presenta un miglior indice di natalità rispetto a noi. Naturalmente, i tempi di efficacia di questi interventi, anche se immediatamente attuati, non sono brevi.

Le migrazioni: chi lascia l’Italia

Nel breve e medio termine, le possibilità di intervento riguardano le migrazioni, sia per quanto riguarda le uscite dal Paese che per quanto riguarda gli ingressi. Nel primo caso, si è ormai consolidato negli anni un quantitativo alto di migrazioni dal nostro Paese verso l’estero, prevalentemente in Europa. Ogni anno, circa 100 mila cittadini italiani emigrano, questi sono i dati ufficiali, ma i dati degli uffici immigrazione degli altri Paesi ci dicono che il fenomeno è molto più ampio di quello che formalmente appare; i rientri invece, riguardano una media di circa 40 mila persone, spesso in età avanzata.

È bene ricordare che una parte importante di questi migranti sono giovani con buona scolarizzazione o con professionalità medio-alte che emigrano non solo per ragioni legate ai livelli salariali, da noi mediamente più bassi, ma anche per poter svolgere il lavoro per il quale si sono formati e che spesso il meccanismo produttivo italiano non consente.

Inoltre, ogni anno lasciano l’Italia (o vengono cancellati dai registri anagrafici) anche circa 140 mila residenti stranieri dei quali ovviamente non rientra quasi nessuno. E anche questo è un giudizio negativo, espresso dai migranti sulle condizioni economiche e sociali che l’Italia è in grado di offrire. Arginare almeno in parte questa fuoriuscita risulterebbe un concreto intervento di riduzione del calo dei residenti ma per poterlo realizzare, è necessario cambiare profondamente le politiche salariali, produttive, del mercato del lavoro, socio-abitative, ecc. rendendo l’Italia più attrattiva, altrimenti si tratterebbe solo di un banale appello alle buone intenzioni. Peraltro, questi interventi potrebbero facilitare anche maggiori rientri delle centinaia di migliaia di cittadini italiani che in questi anni sono emigrati. I tempi di queste scelte potrebbero essere non lunghi se esiste la volontà politica di effettuarli e potrebbero dare effetti importanti nel medio termine.

Le migrazioni: chi sceglie l’Italia

Un intervento sull’immigrazione è quello che nel breve termine può risultare più efficace come forma di contrasto al declino demografico: più ingressi e, soprattutto, più ingressi in età da lavoro. Consapevoli che il fattore più importante per rafforzare rapidamente il saldo migratorio è relativo all’aumento dell’immigrazione tramite canali legali di ingresso. In un possibile scenario di governo di destra, fra blocchi navali e ripristino dei decreti sicurezza annunciati, può apparire utopistico ma la realtà dei fatti è sempre più forte sia della propaganda che del razzismo.

Stime realistiche sono possibili: per mantenere costante la popolazione residente agli attuali 59 milioni di residenti, con un’ipotesi di invarianza del saldo naturale (e cioè la differenza tra i nati e i morti), l’aumento del saldo migratorio con l’estero dovrebbe essere di circa 150 mila persone/anno aggiuntive all’attuale numero di ingressi annui. Si compenserebbe però così solo il saldo demografico totale ma non quello relativo alle persone in età da lavoro (15-64   anni). Tuttavia se, come prevedibile, la quasi totalità di questi ingressi si concentrasse su persone di questa fascia di età per gran parte in età da lavoro per i prossimi 20 anni, anche il calo di questa parte della popolazione potrebbe considerevolmente ridursi.

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Ricorrere ai decreti flussi

Per quanto riguarda i nuovi ingressi, l’incremento di cittadini Ue dipende prevalentemente dalle dinamiche del mercato del lavoro, dal dinamismo della struttura produttiva e d all’attrattività del nostro Paese. I numeri sono per questo al momento difficilmente quantificabili. Lo strumento più certo e disponibile nell’immediato è dunque quello dei decreti flussi; l’aumento ipotizzato di 150 mila persone presuppone che si concentri sui cittadini non Ue e che gli altri fattori compensino le uscite verso l’estero di migranti rispetto ad oggi.

Nel corso degli anni precedenti la pandemia, tali decreti si sono attestati su valori esigui, intorno a una media di 30 mila/anno. Il decreto flussi 2021 ha invertito questa tendenza, aumentando più del doppio le quote disponibili nell’anno (69.700 ingressi, di cui 42 mila per lavoro stagionale). Occorrerebbe pertanto raddoppiare stabilmente la quota prevista nel 2021. Naturalmente andrebbero modificati non solo la quantità ma anche i criteri attualmente previsti: aumentando il numero di persone assunte a tempo indeterminato; allargando i settori   eleggibili (attualmente edilizia, logistica trasporti, turistico alberghiero), estendendo gli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza; e aumentando le quote per conversione dei permessi di soggiorno, per garantire permanenza e stabilità sul territorio.

I vantaggi fiscali

Oltre al fondamentale contributo demografico (sulla popolazione totale e popolazione in età   da lavoro), da questo meccanismo deriverebbero anche importanti vantaggi fiscali e contributivi e una drastica riduzione dell’area dell’illegalità e dello sfruttamento. Ad esempio, un lavoratore dipendente a tempo indeterminato con un reddito di 10 mila lordi annui genera contributi Inps complessivi (lavoratore + impresa) pari a circa 3.900 euro    e Irpef di 223 euro (al netto delle detrazioni per lavoro dipendente) che potrebbero      aumentare progressivamente nel tempo al crescere del reddito. Una stima approssimativa e prudenziale su base annua è valutabile in alcune centinaia di milioni di euro aggiuntivi di contributi attualmente versati da lavoratori e datori di lavoro.

Invertire la tendenza

Queste scelte porterebbero ad un aumento dagli attuali 5 milioni di residenti stranieri a circa 7,5/8 milioni nei prossimi venti anni, perché contestualmente interverrebbero, a compensare la crescita degli stranieri, dinamiche come quelle dell’acquisizione di cittadinanza, uscite e             cancellazioni anagrafiche. Certamente il mix attuale (2021) cambierebbe con una percentuale di popolazione straniera sul totale della popolazione residente più alto.

Gli stranieri attualmente rappresentano l’8,7 per cento della popolazione residente in Italia e con le attuali dinamiche conservative, già oggi previste dall’Istat, aumenterebbero fino a circa l’11 per cento, con una popolazione totale di 56 milioni di abitanti. Nel 2042, sulla base della nostra stima, che mantiene costante il totale della popolazione a 59 milioni, gli stranieri residenti aumenterebbero fino ad una percentuale oscillante tra il 14 per cento e il 15 per cento, cioè ancora in linea rispetto alle percentuali “attuali” di molti Paesi europei: l’Austria è già oggi al 16 per cento, l’Irlanda, il Belgio e la Germania già oggi oltre il 12 per cento, così come la Spagna l’11 per cento.

Nessuna invasione

Fra 20 anni anche in questi Paesi le percentuali aumenterebbero probabilmente in modo maggiore rispetto a quelle italiane. Nessuna invasione in atto o programmata dunque. L’enfasi sull’invasione per acquisire consenso politico si concentra in particolare sull’immigrazione via mare. Va ricordato che l’ingresso via mare si traduce solo in parte in una stabile permanenza: a causa dei dinieghi delle richieste di asilo, dei flussi secondari verso altri Paesi, dei rientri nei Paesi di provenienza. Nei sei anni compresi tra 2015 e 2021 (che pure comprendono anni di intensa crisi umanitaria legata alla guerra in Siria) sono giunti complessivamente via mare poco meno di 600 mila migranti, a fronte di un totale di 1 milione e 600 mila stranieri trasferiti anagraficamente nel nostro Paese nel medesimo periodo (in cui è ricompresa una quota parte dei migranti giunti via mare e rimasti in Italia). Per il 2022, al 27 settembre i migranti giunti via mare erano 69.894, contro i 44.763 dello stesso periodo del 2021.

Regolarizzazioni: il vecchio schema è inutile

Un nuovo intervento strutturale della programmazione legale degli ingressi non può che accompagnarsi a un provvedimento di regolarizzazione di stranieri attualmente presenti in Italia senza titolo di soggiorno valido, di cui almeno una parte sarebbe ricompresa nell’allargamento proposto dei decreti flussi. Le stime sulla presenza di stranieri non regolari sono assai variegate, le più accreditate si attestano tra 300 mila e 500 mila persone. Negli ultimi 35 anni sono stati oltre 1 milione e 500 mila i migranti interessati da sanatorie; un terzo degli attuali immigrati regolari in Italia. Circa 1 milione è stato regolarizzato da governi di centro destra che hanno accompagnato tali provvedimenti con leggi repressive verso i nuovi ingressi (salvo poi varare nuove regolarizzazioni). Occorre evitare di riproporre lo stesso schema. Si farebbe così uscire dallo sfruttamento e dalla clandestinità centinaia di migliaia di persone ottenendo così anche un beneficio importante per i conti pubblici e previdenziali, ricordando che già oggi i migranti regolari sono contributori attivi.

Fulvio Fammoni, presidente Fondazione Di Vittorio