Tra il 5 e il 17 marzo 1943 le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100.000 operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro intento politico e cioè la fine della guerra e il crollo del fascismo.

Un’ondata che da Torino si estende alle principali fabbriche del Nord Italia. La prima fabbrica nell’area milanese che comincia a scioperare è, alle 13 e 30 del 22 marzo, il reparto bulloneria della Falck Concordia dove gli operai fermano i fascisti intervenuti a fermare la protesta.

“Lo sciopero nel milanese - scriveva nell’aprile del 2014 Giorgio Oldrini su Patria Indipendente - era stato previsto per le 10 del 23, ma al reparto Bulloneria della Falck venne anticipato alle 13 del 22. Intervenivano in forze i fascisti, ma nonostante le minacce lo sciopero continuava e il giorno dopo incrociavano le braccia i lavoratori degli altri stabilimenti Falck, della Pirelli, della Ercole Marelli, della sezione IV e V della Breda. Una manifestazione imponente, se si pensa che a quell’epoca i lavoratori delle fabbriche sestesi erano più di 40mila. Tra fine marzo e i primi di aprile i fascisti arrestarono una cinquantina di scioperanti e 30 vennero inviati al Tribunale militare territoriale di Milano e condannati a lunghe pene, ma liberati a fine agosto”.

Quel dannato marzo 1943 è il titolo di uno scritto che Oreste Lizzadri dedicherà alle agitazioni.

“Le abitazioni degli scioperanti - scriveva il futuro segretario della Cgil - venivano invase di notte da gruppi di agenti dell’Ovra che, oltre ad intimidire le mogli, malmenavano e arrestavano quelli che, durante la giornata, si erano dimostrati più combattivi. Il primo bilancio degli arresti poté farsi soltanto il 12 marzo: risultarono fermati 164 operai dei quali 117 internati nelle carceri di Torino e 47 in quelle della provincia. In seguito le repressioni aumentarono. Il 13 ne venivano segnalati 15 alla RIV di Villar Perosa, due giorni dopo 21 alle officine di Savigliano. Malgrado ciò la lotta si estendeva aumentando di combattività. (…) Anche a Milano, malgrado l’intervento ancora più minaccioso della polizia e del padronato, lo sciopero si estendeva in tale misura che la stampa non poté più ignorarlo. (…) Il 2 aprile il regime cedette. A nulla erano valsi arresti, minacce e intimidazioni poliziesche e padronali, diffide, licenziamenti, tentativi di corruzione, manovre disgregatrici per dividere i lavoratori. Perché? La lotta aveva perduto il carattere rivendicativo salariale per trasformarsi in movimento squisitamente politico. I capi fascisti che si recavano nelle fabbriche venivano accolti con le braccia incrociate e, spesso, con sonore fischiate e grida di “abbasso la guerra”, “abbasso il fascismo”.

In realtà non erano gli operai della Fiat e della Pirelli, come tali, a ribellarsi. Questi erano soltanto l’avanguardia di tutto il popolo che sentiva giunta l’ora di liberarsi da un regime di violenza, di sopraffazione, di tirannia, di slogan, di parole. Era la fine del “credere, obbedire, combattere”, “se avanzo seguitemi”, “il duce ha sempre ragione”, “dell’aratro che traccia il solco”. La fine delle aquile dorate, degli stivaloni, delle occhiate truci, la fine dei galloni. Gli scioperi del marzo del 1943, sviluppatisi unitariamente sul rifiuto del padronato e del regime di accogliere richieste di carattere economico e trasformatisi via via in movimento politico antifascista e contro la guerra, ratificarono, dopo un mese di lotta, non soltanto la vittoria dei lavoratori sul terreno salariale. Essi segnarono qualche cosa di più: la prima, grande vera sconfitta del fascismo nei suoi elementi ritenuti i più vitali, quali la potenza della forza repressiva poliziesca e di partito, il mito della sua organizzazione di ferro, la decantata adesione totalitaria dei lavoratori e del popolo italiano al regime. Per la prima volta, gli operai iscritti al partito si rifiutarono di presentarsi in fabbrica in camicia nera e gli stessi militi, mobilitati per stroncare lo sciopero, fecero causa comune con gli scioperanti.

Nei mercati, nei negozi e per le strade, sia pure sommessamente, si discuteva; ma i commenti che si riusciva a captare erano tutti di solidarietà con gli scioperanti e di esecrazione per la guerra e il fascismo. L’unità nazionale che il regime si sforzava di raggiungere, facendo perno sulla guerra, andava, sì, realizzandosi, ma in senso opposto: contro lo stesso regime”.

“Da questa presa di coscienza - concludeva il segretario - nacque la Confederazione generale italiana del lavoro unitaria, e l’unità della Cgil rappresentò il fattore determinante della caduta della monarchia, della proclamazione della repubblica e della rinascita dell’Italia”.