Molte e molti hanno scoperto sul finire di febbraio che nel nostro paese abita una grande comunità di ucraini. Ma meglio sarebbe dire di ucraine, visto che circa l’80 per cento sono donne. Le abbiamo viste, improvvisamente nelle nostre piazze a invocare, giustamente, la fine dei bombardamenti, la libertà del loro paese invaso e aggredito dall’esercito di Putin.

Siamo stati e state nelle piazze con loro, domandandoci come agire per la pace, ma, forse, non ci siamo domandati come e se, prima della guerra, avevamo condiviso lo spazio e il tempo. Eppure tempo e spazio ne abbiamo condiviso molto, ma in quella dimensione del lavoro, soprattutto femminile, di invisibilità.

Lavoro invisibile perché non ne riconosciamo il valore, si svolge tra le mura domestiche, è catalogato come cura che, per insondabili equilibri patriarcali, corrisponde a femminile e gratuito. È lavoro, ma non considerato tale, privo di valore e di nome.

Come invisibile e rapidamente cancellato dalla memoria è stato il fatto che durante il lockdown due terzi delle lavoratrici italiane continuava il lavoro in presenza, garantendo a tutte e tutti noi di vivere più o meno tranquilli. Tutte cose che potrebbero raccontare, e lo fanno quando siamo disponibili ad ascoltarle, le lavoratrici del pulimento e le lavoratrici in appalto della sanità. Loro che partecipavano della fatica e della tensione dell’emergenza, ma non erano nominate, anzi per loro è continuata la lotteria degli appalti, degli orari sempre più ridotti: lo stesso lavoro da fare, ma in meno tempo.

Abbiamo quotidianamente visto le lavoratrici della grande distribuzione essere al loro posto, ma non ci siamo domandati se continuassero a subire il part-time involontario. Ci accudivano e tanto bastava. Ci sembra lontanissimo nel tempo, ma solo qualche mese fa eravamo inchiodati davanti agli schermi a domandarci che cosa sarebbe successo alle donne afghane, se avrebbero potuto continuare a studiare, a lavorare, se avrebbero potuto ancora aspirare ad una vita libera. Poco dopo abbiamo cominciato ad allontanare lo sguardo mentre le profughe e i profughi congelavano ai confini europei della rotta balcanica.

Abbiamo lasciato al loro destino le donne curde e yazide, di cui avevamo ammirato ed esaltato la lotta contro lo stato islamico. Le abbiamo dimenticate quando un altro esemplare dei nuovi totalitarismi invadeva il loro territorio, non abbiamo voluto vedere come si cancellava una storia di liberazione e parità. Andando ancora indietro con la memoria, abbiamo “reimparato” che lo stupro era un’arma di guerra, nella guerra europea dimenticata, quella delle ex Jugoslavia. E forse lo è ancora ma lo scopriremo quanto si farà il bilancio di ciò che succede in Ucraina

Eppure la guerra è un racconto tutto maschile, un linguaggio tutto maschile. Anche il racconto ucraino è al maschile, le donne sono in fuga, proteggono i figli, solo questo è il racconto. Un grande interrogativo: l’invisibilità delle donne. C’è e non c’è, non siamo invisibili quando invadiamo il territorio pubblico, quando i nostri corpi occupano spazi e ruoli imprevisti, ed allora scatta la retorica dell’esempio.

Estremamente faticosa questa retorica che riconosce visibilità solo per omologazione, che richiede di essere uomini in corpi di donna, che ha paura delle diversità, che non accetta che la cura non sia un ruolo innato, ma la costruzione sociale voluta. Così voluta che anche quando è nel mercato del lavoro ha minor valore, è più povera per retribuzioni e più sfruttata.

Utile ad un’altra retorica: quella del secondo reddito, del lavoro necessario e non scelto, che può non esserci, che può tornare gratuito; quella retorica che non sa neanche pronunciare il termine infrastrutture sociali, che non le considera investimenti, che è pronta a cancellare la spesa pubblica per i servizi, invocando volontariato e terzo settore.

Non ho dubbi che molti penseranno che non si può mescolare lavoro e guerra, che non si può costruire un filo che lega l’invisibilità delle donne in molti contesti, eppure quel filo è visibile, ma richiede di cambiare e profondamente il punto di vista e di proporsi la cura come paradigma, un paradigma che cambia tutte le letture, quella del come si determina il valore di un lavoro rispetto ad un altro, quello che dà senso all’essenziale che non esiste solo in emergenza, quello che della guerra vede la sofferenza e non solo i posizionamenti.

Una lezione che non solo dovremmo aver imparato dalla pandemia, ma che, come ci ricorda Roberta Biagiarelli nel suo Figlie dell’epoca, ci fa ripensare a quel congresso internazionale delle donne che si è svolto all’Aja tra il 28 aprile e il 1 maggio del 1915. 1.136 donne da 12 paesi che mentre l’Europa sprofondava nella guerra discussero, si confrontarono e testimoniarono della necessità di risoluzione pacifica dei conflitti.

L’8 marzo del 2022 si colloca su una faglia tra la pandemia ancora irrisolta e i venti di guerra che dominano i pensieri e il tempo, due lunghi anni di paure che trovano nuove paure e insicurezze, che propongono la tentazione di pensare che forse i diritti delle donne, la parità non siano all’ordine del giorno, non siano la priorità.

Oppure può essere il giorno che ci permette di intrecciare fili e riflessioni per comprendere e urlare che diseguaglianze crescenti, insicurezze diffuse, assenza di cura del mondo e delle relazioni generano guerre e sopraffazioni, alimentano sfruttamento. I diritti non possono essere solo per i tempi “facili”, anzi sono un bene così prezioso che deve crescere sempre anche quando appare controcorrente.

Susanna Camusso, responsabile politiche di genere della Cgil nazionale