Il rapporto annuale Istat ratifica ancora una volta la situazione di emergenza costante in cui vivono i giovani in Italia da oltre un decennio. Anche nel 2020 siamo il Paese con il più alto numero di giovani che non lavorano, né studiano, i cosiddetti Neet: circa il 23% dei giovani tra 15 e 24 anni, in crescita rispetto al 2019. L’incidenza dei Neet raddoppia nelle aree del Sud rispetto al Nord, è maggiore tra i giovani immigrati e tra le donne. Un giovane Neet nel 2019 è rimasto in questa condizione anche nel 2020 per il 70% dei casi, soprattutto se ha un basso titolo di studio, se è donna o immigrato, se vive nel Mezzogiorno. Parallelamente diminuiscono i Neet che dopo un anno sono occupati, così come diminuisce il tasso di occupazione dei giovani tra 18 e 24 anni che hanno precocemente abbandonato il sistema di istruzione e formazione. 

E i giovani se ne vanno
Continuano fenomeni allarmanti come la cosiddetta fuga dei cervelli, lo spopolamento di intere aree per effetto della migrazione giovanile soprattutto all’estero: in oltre 10 anni gli italiani di 25-34 anni che si sono trasferiti all'estero hanno superato quelli che sono tornati: sono 259 mila, di cui circa il 36% con la sola licenza media e quasi il 30% laureati. Restiamo poi tra i Paesi europei con il tasso più elevato di dispersione scolastica, con trend in calo, ma con forti squilibri territoriali; così come siamo nettamente in ritardo rispetto al resto dei Paesi europei sul fronte dell’istruzione universitaria: appena il 20% di chi ha tra 25-64 anni risulta aver conseguito un titolo terziario in Italia, contro il 32,5% nella Ue27. Inoltre il rendimento in termini di occupazione della laurea rispetto al diploma è in Italia più basso in confronto alla media europea, soprattutto per le donne e al Sud: significa che c’è ancora un grande potenziale di risorse non utilizzate e quindi perdute. 

Gli incentivi? Non agevolano le assunzioni
Qual è stata la risposta delle politiche pubbliche a questa evidente situazione di svantaggio delle nuove generazioni? Se si guarda al programma principale di attivazione rivolto ai giovani – la cosiddetta Garanzia Giovani – l’investimento principale di risorse e di interventi ha riguardato gli strumenti di incentivazione all’occupazione e i tirocini. 

Da anni la Cgil tiene vivo il dibattito sulla reale efficacia dei tanti incentivi introdotti per sostenere la crescita di occupazione, soprattutto quando riguarda giovani e Sud. Dagli studi che finalmente cominciano a arrivare sugli effetti di queste misure, dati che da tempo chiediamo, non emerge una correlazione significativa tra crescita delle assunzioni e incentivi: anche quando le agevolazioni diminuiscono o vengono sospese, le assunzioni tendono a aumentare. Così come si evidenzia in modo netto che le agevolazioni sono inefficaci ai fini della stabilizzazione dei rapporti di lavoro che, dimostrano i dati, tendono a concludersi con l’esaurirsi delle misure di decontribuzione: sia che riguardino i giovani, sia che siano al Sud i contratti incentivati presentano un basso livello di resistenza sul mercato. Al massimo, quindi, gli incentivi possono fornire un vantaggio temporaneo legato all’abbattimento del costo del lavoro per le imprese; non sembrano un fattore decisivo per la creazione di nuovi posti di lavoro di qualità.  

Tutti i limiti dei tirocini
Gli ultimi dati forniti dal rapporto di valutazione Anpal-Inapp ci dicono che tra il 2014 e il 2019 sono stati attivati quasi 2 milioni di tirocini (365 mila solo nel 2019) e che hanno coinvolto 1 milione e 600 mila persone in quasi 530 mila imprese. La crescita è stata consistente in tutto il Paese, ma ha riguardato soprattutto il Sud in cui il numero di tirocini attivati è più che raddoppiato tra il 2014 e il 2019 per effetto soprattutto dei finanziamenti provenienti da Garanzia Giovani

Le imprese che hanno avviato un tirocinio sono maggiormente presenti al Nord, ma nel Mezzogiorno tra il 2014 e il 2019 la percentuale di imprese è più che raddoppiata. I settori in cui vengono attivati più tirocini sono le attività professionali, scientifiche e tecniche, i servizi di informazione e comunicazione, le Attività finanziarie e assicurative e l’Industria in senso stretto. Decisamente residuali i tirocini attivati da università (5%) e scuole (1%). La maggior parte dei tirocinanti ha meno di 30 anni; quasi un terzo dei tirocini è svolto da giovani in possesso al massimo della licenza media, quasi il 50% da chi ha un diploma.  

Ma alla fine del tirocinio cosa succede? A 6 mesi dalla conclusione, si conferma quanto messo in luce da alcuni studi sindacali qualche anno fa: 1 tirocinante su 3 resta fuori dal mercato del lavoro dipendente. Al Sud gli esiti sono peggiori: quasi 1 giovane su 2 dopo il tirocinio non prosegue con un contratto la propria esperienza professionale, proprio in quelle aree dove prevalentemente le risorse di Garanzia Giovani sono state investite sui tirocini. 

La maggiore efficacia del tirocinio si registra al Nord e al Centro a ridosso della conclusione dell’esperienza, soprattutto quando il primo contratto è stipulato dallo stesso datore di lavoro che ha ospitato il tirocinio. Sono i rapporti di lavoro a termine a prevalere (soprattutto i contratti a tempo determinato al 39%), le assunzioni a tempo indeterminato sfiorano il 15% e quelle in apprendistato coinvolgono quasi un terzo degli occupati. I tirocini più brevi presentano tassi di inserimento minori; gli inserimenti più numerosi hanno interessato i tirocinanti con titoli di studio superiori o pari al diploma di scuola secondaria superiore. Aver avuto una esperienza prima di svolgere il tirocinio costituisce un ulteriore vantaggio in termini di esiti occupazionali.

Come già messo in luce da alcuni studi sindacali, è evidente che il tirocinio non è strumento che funziona per tutti: non funziona per i giovani con bassi titoli di studio, maggiormente scoraggiati rispetto alla ricerca attiva di un lavoro e con minori strumenti per muoversi nel mercato del lavoro. Per dare risposte a questa ampia platea di giovani in difficoltà, non basta finanziare tirocini: occorre investire sulla costruzione di carriere professionali, di cui il tirocinio può essere un punto di partenza, a patto che non sia troppo breve, non venga reiterato con la stessa azienda, sia seguito da contratti stabili. Occorre potenziare l’utilizzo dell’apprendistato, ancora troppo poco utilizzato e che invece offre maggiori garanzie e investe maggiormente sulla formazione e su un ingresso nel mondo di lavoro più tutelato e di qualità. 

Delusione Pnrr
Sulla proposta di nuovi e efficaci investimenti per i giovani, soprattutto quelli con maggiori difficoltà, anche il Pnrr è insoddisfacente. Nel Piano il tema viene considerato una delle priorità trasversali, ma nella forma di una dichiarazione di principio e non, come sarebbe necessario, di una pianificazione basata su idee chiare, azioni di sistema e progetti specifici. Si avverte il rischio che, accanto al rafforzamento degli incentivi di assunzione dei giovani basati su misure di decontribuzione, soprattutto al Sud, il resto della strategia del Pnrr rivolta ai giovani sia ancora disarticolata, frammentata e scarsamente sostenuta dalla volontà di ottenere obiettivi misurabili su ampia scala. 

Senza un investimento sostanziale e poderoso sulle nuove generazioni le transizioni – digitale, ecologica, basate su un’economia sostenibile – non riusciranno a realizzarsi. Per questo abbiamo chiesto l’istituzione al più presto di un Tavolo giovani che veda il coinvolgimento dei diversi livelli di governo e la partecipazione del partenariato economico e sociale, per definire una strategia complessiva e operativa di interventi basata sull’utilizzo integrato delle tante risorse a disposizione, europee e nazionali, e che possa orientare sia l’impianto del Pnrr, sia il nuovo Programma nazionale giovani, donne e lavoro finanziato dal nuovo ciclo programmatorio 2021-2027 con oltre 5 miliardi di euro.