Giuseppe De Rita, Come cambia l’Italia. Discontinuità e continuismo, edizioni E/O, 2020, pp. 112.

Questo libro di Giuseppe De Rita potrebbe essere sintetizzato sotto l’etichetta dell’‘elogio della continuità’. Infatti il sociologo e fondatore del Censis, già presidente del Cnel, mostra tutti i rischi di disarticolazione del nostro Paese, ove dovesse uscire dai binari che avevano caratterizzato la sua evoluzione dal dopoguerra in poi. In realtà questo filo rosso del volume appare largamente condivisibile nelle sue preoccupazioni, ma non del tutto persuasivo. Le categorie d’analisi che vengono adottate sono più prossime alla filosofia politica e richiederebbero ulteriori decodifiche. Certo se l’auspicabile ‘continuità’ – per usare il lessico dell’autore, che ricorda anche come essa non abbia mai coinciso con la staticità - è entrata in crisi è da ascrivere al fatto che non abbia più funzionato bene nel tenere insieme la società italiana. E dovremmo ragionare con maggiore profondità sulle ragioni di questo declino, e su quelle dell’ascesa della ‘discontinuità’ (che poi si sostanzia nell’affermazione elettorale di formazioni che declinano variamente pulsioni populiste).

Invece il merito maggiore di questi scritti risiede nella loro virtuosa sapienza della società italiana, legata al filone di ricerche e dati più prossimo alle elaborazioni del Censis e alle inclinazioni dell’autore. In effetti, come si evince da queste pagine, ci troviamo di fronte alla principale lettura, fuori dagli stereotipi, dei caratteri e delle dinamiche della società italiana: più o meno accettata, e da un certo punto in poi decisamente egemone anche a sinistra.

Intendiamoci, non è che siano mancate ricerche sociologiche di respiro nella nostra realtà, ma nessuna così ripetuta nel tempo e costantemente impegnata a cogliere quello che si muoveva - per usare un'espressione famosa – nelle pieghe della società. Una lettura attenta, che esplicitamente non intendeva tradursi in qualche sintesi ‘dall’alto’, ma orientata piuttosto verso la decifrazione delle spinte ‘dal basso’, per coglierne novità e tendenze: e come si può vedere si trova qui qualche consonanza anche con approcci di una parte della sinistra.

A questo riguardo troviamo nel volume le analisi preoccupate del progressivo slittamento della nostra società verso il primato dei “comportamenti e della loro crescente diversità”. Cosa che dà vita tra l’altro all’affermazione del ‘presentismo’ e di un individualismo sempre più auto-avvitato. Per cui viene considerata “prevedibile una ulteriore proliferazione dei soggetti sociali e della loro volontà di potenza soggettuale”.

Nello stesso tempo gli interrogativi di fondo riguardano la persistenza di alcuni dei connotati caratterizzanti il nostro corpo sociale – sui quali storicamente aveva insistito il Censis – e dalla cui resilienza futura dipende la nostra stessa permanenza tra i paesi avanzati. Cinque sono i ‘fondamentali’ determinanti in passato ma le cui sorti sono ora divenute più sfocate: la carica di primato della persona che ha alimentato il lavoro autonomo; il senso e il gusto della proprietà; la propensione a fare piccola impresa; il ruolo della famiglia; il territorio. In queste chiavi possiamo sentire riecheggiare molte delle suggestioni lanciate dal Censis nei decenni scorsi. E che hanno consentito di tenere il polso e dare forma a cambiamenti che esprimevano il meglio di alcune tendenze spontanee presenti nella nostra società.

Soprattutto quello che emerge – seguendo questo ragionamento – è la formidabile crescita di ansie e di insicurezze che attraversa la società italiana. Da cui discendono forti domande in direzione di “più sicurezza di base e più certezze di senso”.

Venendo poi ad un terreno specificamente sindacale, una parte di queste riflessioni riguarda il decollo della cosiddetta disintermediazione, cioè dell’idea di poter decidere su materie sociali ed economiche senza il ricorso ad un qualche raccordo (il principale era stata la concertazione) con le grandi organizzazioni di rappresentanza. Al riguardo De Rita mostra con efficacia come i processi di disintermediazione non siano stati solo il frutto di stili individuali di leadership, ma anche di cause strutturali che hanno condotto allo spiazzamento e al logorio dei diversi soggetti della rappresentanza sociale. Appare anche giusta – e saggia – la sottolineatura che queste spinte risultano attualmente abbastanza abortite, sia perché in misura più o meno larga si sono esaurite, sia perché almeno una parte di quelle organizzazioni ha dato prova di capacità adattive e reattive. In particolare quelle che hanno meglio saputo utilizzare rinnovandolo il loro retroterra confederale, richiamato anche da De Rita come una virtù positiva.

In effetti proprio nel quadro attraverso il quale ci accompagna l’autore, segnato da comportamenti via via più riottosi a riconoscersi in sintesi centrali, quelle organizzazioni, se adeguatamente risintonizzate con la realtà sociale, possono servire. Esse possono contribuire a fornire qualche connessione in più, e possono esercitare un ruolo di collegamento, di costruzione di senso e di rielaborazione delle identità collettive: uno spazio appropriato per attori nazionali, ma che trovano la loro forza nelle radici locali. A questa lettura ottimistica può indurci anche la recente esperienza del virus, che ha confermato come le grandi organizzazioni siano tra i pochi punti di riferimento restati in campo e in grado di svolgere nell’emergenza una funzione di collante sociale.

Il timore di De Rita, che non si può non condividere, è che i cambiamenti successivi alla ‘grande recessione’ ci spingano in direzione di un “paese senza”: nel quale non solo ci sono i rischi di rimanere senza lavoro e senza prospettive, ma anche di un forte smarrimento dell’identità comune.

Giustamente l’autore tra le cause della inadeguatezza crescente descrive l’impoverimento della politica e del dibattito pubblico, che arriva fino al nanismo delle classi dirigenti. Ma senza rimettere in moto e rilanciare questa dimensione sarà difficile uscire dalle attuali secche.