Una macabra nuvola sembrava avvolgere l’estate 2015. Una stagione lugubre, segnata dalla conta dei morti nei campi. Donne e uomini, italiani e migranti, falciati sul lavoro, vittime della prepotenza di caporali e imprenditori senza scrupoli, arroccati su una concezione padronale, al limite questuante, della dialettica con chi lavora per vivere. Una dialettica condita allo sfruttamento bestiale, orari disumani, paghe da fame, soprusi e violenza.

Il bollettino di guerra di quell’estate di cinque anni fa si era aperto con la morte di due lavoratori rumeni, rispettivamente nel ragusano e nel veronese. Ne seguirono altre, nove in tutto, prima della fine di quella stagione: tre rumeni, tre subsahariani, tre italiani.

Paola Clemente ne divenne il simbolo. Lavoratrice, madre e moglie, il suo impegno qualificava la ricerca di un’esistenza libera e dignitosa. Chi pratica il sindacato di strada conosce il vissuto delle donne e degli uomini impegnati nei campi.  Ne sa riconoscere le fragilità. Sa cogliere la paura che incutono i caporali. Decifra i silenzi fragorosi di chi sa, e va sorretto per non farlo restare afono, per timore di rappresaglie. Percepisce il pianto muto scoppiato dalle vessazioni. Sa intercettare lo sguardo pavido della sofferenza nel lavoro.

La morte di Paola Clemente avrebbe potuto essere catalogata come “fatalità”, svincolata dal suo lavoro. Ma c’erano dubbi e perplessità. C’erano i bisbigli delle compagne di lavoro. Poi il vocio accusatorio. Dopo qualche tergiversazione, i famigliari si fecero coraggio. A fare quadrato attorno a loro, c’era la Flai Cgil. Il marito Stefano sporse denuncia. Le colleghe ruppero il silenzio: la morte di Paola poteva e doveva essere evitata. 

Quel giorno, Paola era impegnata nell’acinellatura dell’uva, un meticoloso processo di cura del grappolo. Una delicata operazione di eliminazione degli acini piccoli per rendere il grappolo attraente. Un lavoro che impone di stare in piedi, occhi, naso, mento e braccia in su, tutto il tempo. Quel 13 luglio di cinque anni fa, Paola era partita dal suo paesino, San Giorgio Ionico, nel tarantino, prima dell’aurora, insieme a un’imponente comitiva di decine di altre lavoratrici. A bordo di pulmini assegnati dall’agenzia interinale che faceva da interfaccia con le aziende agricole, si spostarono ad Andria, trecento chilometri più in là. Operosa come sempre, Paola chiese tuttavia di soprassedere al lavoro qualche istante. Lo esigevano le sue condizioni di salute. Il rifiuto secco da parte di chi sovrintendeva il lavoro aveva un preciso significato: fermarsi implicava che la paga giornaliera di 27 euro ne avrebbe risentito. Un ricatto. Che la costrinse a continuare con l’acinellatura. Finché si accasciò, esanime.

L’indagine della Procura di Trani e il processo appureranno che Paola morì di fatica, vittima di un sistema consolidato che speculava, allora come ora, sullo stato di bisogno delle persone. Un sistema marcio, che impone le sue astuzie come quella di emanare buste paghe formalmente regolari, mentre la retribuzione effettivamente percepita, è molto più bassa. Paola aveva il suo calendario-taccuino. Segnava ogni giornata di lavoro: antico metodo per non incappare nelle capriole dell’agenzia interinale che la inquadrava. Le testimonianze di tante delle seicento altre “somministrate” furono determinanti per far emergere la verità.

La vicenda di Paola Clemente fu un tonfo nella coscienza democratica.  Il Parlamento approvò un dispositivo accurato contro lo sfruttamento del lavoro. Uno schema normativo articolato sul doppio repressione-prevenzione. Correva l’anno 2016. Da allora, di acqua sotto i ponti n’è passata tanta. Il caporalato e lo sfruttamento sono sempre attuali. Ne danno conto i quotidiani interventi di Polizia Giudiziaria, in ogni parte d’Italia. La logica del maggior guadagno al minor costo continua a imperversare in troppi strati del tessuto produttivo agropastorale. A pagarne lo scotto, l’anello più debole della catena: le lavoratrici e i lavoratori. Spesso al prezzo della propria vita. Vittime della violenza tracotante dei caporali e degli sfruttatori. Come il pakistano Adnan Siddique, ucciso a Caltanissetta un mese fa, reo di essersi scagliato contro i soprusi. O il 25enne indiano Joban Singh, ritrovato impiccato cinque settimane fa a Sabaudia, probabilmente a causa dei troppi abusi subìti.

Il comparto agropastorale non può essere una giungla in cui i lavoratori sono accostati con disprezzo alle “scimmie” da dissetare con l’acqua inquinata del canale, come raccontano le intercettazioni dell’inchiesta “Demetra” che ha portato a una raffica di arresti tra Cosenza e Matera, oltre al sequestro di quattordici aziende un mese fa. Come tanti altri, non esitava a calpestare le statuizioni dei Contratti Collettivi nemmeno un agro- imprenditore dal fatturato multimilionario come il foggiano Saverio Passalacqua, finito nell’occhio del ciclone due settimane fa. La cronaca abbonda di vicende simili. Le inchieste di Amantea, Asti, Forlì, Rieti per fare qualche esempio tra le più recenti vicende, sono solo la punta dell’iceberg.

Il IV rapporto agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto stima in 430mila la platea complessiva di lavoratrici e lavoratori soggetti a ingaggio irregolare, di cui 132mila ancor più a rischio, esposti a forte sofferenza occupazionale e grave vulnerabilità sociale. Tanti sono richiedenti asilo e migranti. L’emergenza sanitaria ha palesato l’urgenza di interventi specifici a loro tutela, a cominciare dalle inaccettabili condizioni di vita negli accampamenti rurali informali. La regolarizzazione in corso, frutto della mobilitazione della Flai, insieme a Terra! e tante organizzazioni, associazioni, personalità dalle più svariate etichettature e tantissimi cittadini, può essere uno spartiacque per questa nuova servitù della gleba.  Le manchevolezze che ostacolano l’emersione, come per soffocarne la portata, compresa la piroetta parlamentare che blinda il voto sul DL Rilancio comprensivo della regolarizzazione per l’appunto, senza recepire nessun emendamento migliorativo, evidenziano un dato di fatto: la strada è lunga per sconfiggere l’idra dello sfruttamento. Dobbiamo continuare a lottare. Lo dobbiamo a noi stessi.  Lo dobbiamo ai valori di giustizia sociale incarnati nella storia collettiva da una figura straordinaria come Giuseppe Di Vittorio. Lo dobbiamo alle tante vite spezzate nei campi di sudore. Come Paola Clemente.

Jean-René Bilongo è coordinatore Osservatorio Placido Rizzotto/Flai