“Abbiamo parlato, sbagliando, di distanziamento sociale ed è questo che alla fine abbiamo prodotto: un aumento delle diseguaglianze. Credo quindi che alla ripresa, a settembre, l’obiettivo debba essere il riavvicinamento sociale”. Così Alessandro Rosina, che insegna Demografia e Statistica sociale nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, il quale ammette in ogni caso che la didattica a distanza, oltre a essere ovviamente inevitabile in lockdown, “ha dato una spinta all’uso delle nuove tecnologie, ci ha costretti a comprendere l’importanza di possedere competenze digitali da parte di docenti e studenti, facendoci però anche capire quanto queste in molti casi siano carenti. Si è trattato insomma di un grande stress test del nostro sistema scolastico. È una consapevolezza importante: il mondo oggi richiede che quelle competenze ci siano. E non parlo solo di competenze tecniche, ma anche del senso che si dà a questo apprendere con nuovi strumenti e a come utilizzarli bene per produrre valore”.

Tutti hanno anche evidenziato però i grandi limiti della didattica a distanza…

Certamente. Il primo è che la dad non si può improvvisare. Non è solo questione tecnica ma anche antropologica: bisogna capire come le nuove tecnologie possano essere usate per arricchire, senza sostituirle, le modalità di insegnamento tradizionale. Anche perché queste novità possono andare incontro a sensibilità e interessi delle giovani generazioni. Per questo dobbiamo investire al rialzo su tecnologia e, appunto, “antropologia”. Ecco, da quello che abbiamo visto in questi mesi, questi aspetti qui non sono andati benissimo.

Abbiamo visto anche tante diseguaglianze...

È così: ci sono state grandi disparità tra le diverse scuole italiane. Disparità anche nelle famiglie – molti ragazzi non hanno strumenti tecnici o connessioni adeguate – e nelle competenze delle famiglie che li dovevano supportare nello studio a distanza. È diventato più facile “perdersi”: e così l’evasione scolastica – la cui riduzione già negli ultimi anni prima della pandemia si era fermata – è tornata a crescere.

Come dovrà ripartire allora la scuola a settembre?

Non ho dubbi: la didattica in presenza dovrà essere l’asse centrale. Serve un’interazione a tu per tu con i ragazzi, bisogna recuperare gli aspetti emotivi che spesso a distanza non si possono cogliere. È necessario insomma un riavvicinamento sociale. A tutto questo però credo sia utile aggiungere, per tutto quello che abbiamo detto, un salto di qualità che tenga conto dell’innovazione tecnologica. Ma senza sostituzioni.

Quindi tornare a scuola in sicurezza non basterà...

Assolutamente no. L'obiettivo non deve essere solo garantire, come pure è necessario, la sicurezza sanitaria. Questa va coniugata con l'obiettivo di garantire nel modo più adeguato e funzionale il diritto allo studio e all'apprendimento. Rispettare la distanza fisica non risolve tutto: la scuola deve fornire a ragazze e ragazzi la possibilità di uno sviluppo umano. Se garantiamo sicurezza e non apprendimento, abbiamo realizzato metà di quello che andava fatto.

Il problema è sempre lo stesso: le risorse. Per fare quello che lei dice – spazi sicuri, tecnologie adeguate e così via – servono tanti soldi.

Certo, e allora rispondo che questi soldi vanno trovati. Basta alibi:  se gli spazi servono li dobbiamo trovare, se c’è bisogno di più insegnanti e di maggiori dotazioni tecnologiche vanno trovate. Investire sul capitale umano delle giovani generazioni deve essere la priorità, il pilastro su cui ripartire. Sui giovani l’Italia era molto indietro da ben prima della pandemia e questa situazione, se non si interviene, rischia di farci scivolare sempre più in basso.