“Non abbiamo i numeri ufficiali dei casi di contagio, né tra i detenuti, né tra i dipendenti, operatori e poliziotti. E questo è un problema. Anzi è il problema: le informazioni non circolano, le cose non si sanno. E non sapere peggiora la situazione”. A parlare è Barbara Campagna, educatrice al carcere di San Vittore, 945 detenuti, 662 tra poliziotti e amministrativi, e coordinatrice regionale del comparto per la Funzione pubblica Cgil. Siamo a Milano, dove il numero dei contagi è sempre alto, dove la paura si taglia con il coltello. “L’incertezza fa più male della certezza” prosegue Campagna. 

Perché?

Non sapere genera ansia. Se non conosci la verità la puoi supporre, presumere, e questo crea maggiori difficoltà. Partiamo dai dati. Non abbiamo certezza di quanti siano i contagiati nel nostro istituto. Radio carcere e Radio bisbigli danno dei numeri, ma non gli si può dare credito. C’è la convinzione che se vengono forniti i dati si possa scatenare il panico. Non sappiamo neppure a chi viene fatto il tampone. Ma sappiamo che qui a San Vittore ci sono delle persone positive, e che queste hanno certamente avuto contatti con altri. Quindi bisognerebbe fare il tampone a tutti per scoprire gli asintomatici. Altrimenti il contagio si allarga e si moltiplica. 

E invece?

E invece tutto viene stabilito a tavolino, noi veniamo a conoscenza delle decisioni prese solo a cose fatte. È necessario che l’amministrazione penitenziaria si apra all’interlocuzione con le parti sociali, soprattutto in questa fase di emergenza, perché i lavoratori conoscono le situazioni. Le decisioni potrebbero essere condivise prima della formalizzazione, avvalendosi dell’esperienza del sindacato, in tutti i campi. Per esempio, per l’organizzazione pratica del servizio, dall’inizio, quando entri nell’istituto, all’uscita, dai contatti con la Asl a quello con gli altri uffici, fino al coordinamento degli uffici tra di loro.

Quali provvedimenti sono stati adottati a San Vittore per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori?

Quando entriamo ogni 15 giorni dobbiamo compilare un modulo in cui dichiariamo se abbiamo patologie respiratorie e da dove veniamo. Viene misurata la febbre. Quando entri, trovi dappertutto disseminati i contenitori di liquidi disinfettanti. C’è l’obbligo della mascherina, peccato che finora ce ne abbiano data una a settimana. Come faccio? Anche se è usa e getta, quando torno a casa la disinfetto seguendo un tutorial che ho visto su Youtube. La metto in alcool in una ciotola, insomma è un fai da te, e il giorno dopo la riuso. Poi i guanti, anche qui un paio a settimana. Per il resto ci sono le stesse prescrizioni date ai cittadini fuori, distanza sociale e niente strette di mano. I detenuti sono chiusi nelle celle, in due o tre persone, mentre nei luoghi comuni frequentati dai dipendenti, bar e mensa hanno dimensioni tali da garantire le distanze.

Nelle amministrazioni pubbliche lo smart working è stato recepito come forma di lavoro ordinario, si è arrivati al 70-80 per cento. A San Vittore? 

C’è uno scarso ricorso al lavoro agile, perché non siamo preparati, perché è vissuto come una regalia, una concessione al lavoratore. E invece lo smart working dovrebbe diventare modalità di lavoro ordinario. Io per esempio faccio solo un giorno su cinque, mentre dovrei farne tre su cinque. Non si capisce perché. Noi educatori, ma anche gli amministrativi, possono svolgere la maggior parte delle mansioni a distanza. Persino i detenuti fanno colloqui tramite Skype con i magistrati. E poi c’è l’assurdità delle missioni: so di un collega che da Bergamo è andato a Lecco, di un’altra che da Milano ha raggiunto Bergamo, alla faccia del rischio contagio e delle restrizioni degli spostamenti. Ma vi pare possibile che ci si debba spostare con la crisi sanitaria in atto, per fare cose che si possono fare tranquillamente a distanza?

I detenuti come vivono queste restrizioni?

Tutto è sospeso, il volontariato, la scuola, la formazione. Prima dell’emergenza sanitaria i detenuti avevano una dimensione di gruppo, c’erano attività che si facevano insieme. Ora sono solo preoccupati per le famiglie, vorrebbero uscire, molti hanno fatto domanda per i domiciliari, pensano che fuori sia meglio che dentro e che l’assistenza sanitaria degli ospedali dia maggiori possibilità rispetto a quella che si offre qui, ma non è così. Non sanno che negli ospedali a Milano si rischia di contagiarsi. Per compensare questa situazione di isolamento hanno istituito i collegamenti via Skype con l’esterno, hanno aumentato il numero delle telefonate, mantenuto il servizio di distribuzione vestiario. C’è anche più disponibilità nei contatti con le famiglie. Ma oggi il carcere è vuoto e opprimente, è tornato a essere come era molti anni fa.