Diminuisce il numero dei detenuti in Italia dopo le rivolte nelle carceri agli inizi dell’emergenza Coronavirus, e si allenta la pressione causata dal sovraffollamento. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le presenze sono passate da 61.230 del 29 febbraio ai 57.137 del 6 aprile. Un calo di oltre 4 mila carcerati, che sono usciti dagli istituti di pena nel giro di un mese, da quando è scoppiata la crisi sanitaria. Ma ancora non basta. 

“Per creare condizioni di tranquillità rispetto ai rischi di contagio e quindi spazio e distanziamento fisico, si dovrebbe scendere al di sotto dei 46 mila detenuti – sostiene Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che insieme ad Arci, Anpi, Gruppo Abele e Cgil ha presentato una serie di proposte per superare l’isolamento, deflazionare il sistema penitenziario senza ripercussioni per la sicurezza, proteggere i lavoratori –. Altrimenti non c’è la possibilità di disporre di celle singole se ci sono persone contagiate. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190 per cento. E mentre ogni giorno i detenuti sentono dire alla televisione che bisogna mantenere le distanze, si ritrovano in tre persone in celle da 12 metri quadrati. Senza parlare delle condizioni igienico-sanitarie, che sono spesso precarie”.

Le proteste di marzo, che hanno coinvolto 50 istituti in tutta la Penisola, hanno visto tra le conseguenze più tragiche 14 morti e diverse persone in ospedale. “Le rivolte hanno dimostrato la fragilità del nostro sistema, che abbiamo sempre denunciato – dichiara Massimiliano Prestini, responsabile nazionale per il sistema penitenziario di Fp Cgil –. Strutture inadeguate perché molto vecchie e carenze di personale: durante le rivolte si è riusciti a riportare la situazione alla normalità solo richiamando in servizio poliziotti e facendo intervenire altre forze di polizia. Come abbiamo visto, il sovraffollamento detentivo e le preoccupazioni causate dall’emergenza sanitaria possono creare un clima teso e difficile da gestire”. 

La paura, la solitudine, la disperazione, il sovraffollamento e i rischi di contagio anche per lo staff impongono risposte urgenti ed efficaci”, rincara Gonnella. Le ha chieste anche Papa Francesco scrivendo in un tweet che “dove c’è sovraffollamento nelle carceri c’è pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave”. Le ha chieste lo stesso Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: servono “interventi ben più decisi”, occorre “rimuovere il più possibile gli ostacoli che non rendono agevole la concessione della detenzione domiciliare”.

Cosa che i giudici stanno facendo. La magistratura di sorveglianza, sollecitata dagli operatori penitenziari, ha iniziato ad applicare norme “sonnolenti” come l’esecuzione della pena nel domicilio, appunto, dove possibile, quando per esempio mancano due anni alla fine, o per motivi sanitari nel caso di detenuti oncologici, cardiopatici, immunodepressi, e il maggior ricorso a permessi ai semiliberi, che in questo modo possono evitare di rientrare la sera in istituto. Ad allentare la tensione ha aiutato l’improvvisa diminuzione dei reati, che ha causato una riduzione degli arresti in flagranza. Infine, le persone che escono dal carcere non vengono sostituite anche perché le procure hanno sospeso gli ordini di esecuzione delle sentenze per i condannati a piede libero. 

Nel frattempo però nelle carceri ci si ammala di Covid-19: attualmente risultano positivi 58 detenuti, 178 poliziotti penitenziari e 5 amministrativi. Dove sono dislocati i casi non si sa con certezza, di certo è che sono a macchia di leopardo e sono concentrati nelle regioni a più alto contagio, Emilia Romagna e Lombardia. Quando si verificano, oltre a fare ricorso ai ricoveri in ospedale quando le condizioni del malato lo richiedono, si prendono i provvedimenti che le strutture e la situazione consentono: celle che da doppie o triple diventano singole nel caso di detenuti, quarantena in caserma e isolamento al domicilio per i poliziotti e gli operatori. 

Un’occasione per risolvere il problema era rappresentato dal decreto Cura Italia. Un’occasione persa. “Le modifiche introdotte e approvate in via definitiva non sono incisive, si tratta di un errore gravissimo, sulla pelle di operatori penitenziari, dei poliziotti, dei detenuti – prosegue Gonnella –. C'è bisogno di liberare 10 mila persone almeno, anche perché sono sempre più numerosi gli operatori e i poliziotti costretti a stare a casa in quanto risultati positivi. Se c'è tempo si rimedi e si prendano provvedimenti incisivi per evitare che le carceri diventino le nuove Rsa. C’è chi sostiene che in carcere si sta più sicuri e al riparo dal virus. Non è vero. Il carcere non è, come tutte le strutture affollate, il luogo dove affrontare la pandemia”. Il fatto è che gli articoli 123 e 124 del Cura Italia non modificano granché le normative esistenti. E nella pratica anche quando viene concessa la detenzione domiciliare si richiede come vincolo la sorveglianza con braccialetti elettronici, nel caso di pene da scontare superiori ai sei mesi. Peccato che la disponibilità di questi strumenti sia limitata e, con ogni probabilità, insufficiente per ridurre il sovraffollamento. 

L’allarme contagi riguarda naturalmente anche il personale che lavora nelle carceri, poliziotti e civili. C’è una carenza dei dispositivi di protezione individuale: le mascherine arrivano in quantità non sufficiente, e comunque non quelle “regolamentari” (Ffp2 e Ffp3), nel migliore dei casi vengono fornite quelle chirurgiche. C’è difficoltà nel reperire materiale igienizzante, e anche la sanificazione dei locali, dei luoghi comuni, uffici, celle, mense, è scarsa.

“Abbiamo chiesto di effettuare i tamponi o i test rapidi a tutti coloro che entrano nelle carceri, poliziotti, educatori, amministrativi, e invece vengono fatti solo in caso di presenza di sintomi – spiega Prestini del sindacato Fp Cgil –. Secondo gli studi, coloro che manifestano sintomi rappresentano un quinto di quelli che sono realmente contagiati: quindi questi 183 si potrebbero moltiplicare. Il problema delle carenze di organico si accentuerebbe in modo drammatico. Abbiamo chiesto strumenti per misurare la febbre, in alcuni istituti sono disponibili, in altri no. Abbiamo chiesto più volte, mandando anche diffide all’amministrazione, che sia applicato il protocollo che riguarda il pubblico impiego con norme e regole da adottare per prevenire contagio e favorire forme di lavoro sicuro: il capitolo carceri non è stato neppure aperto, molte delle direttive impartite a livello centrale non sono state recepite dall’amministrazione penitenziaria. Prima fra tutte, quella che favorisce lo smart working. Il sovraffollamento, lo stato in cui versa l'edilizia carceraria, la condizione dei lavoratori insieme a quella dei detenuti sono un insieme di elementi che espone a rischi non solo di contagio da virus ma anche di tensioni, come quelle registrate nelle scorse settimane”. Insomma, una bomba a orologeria a cui manca poco per esplodere, che l’amministrazione dovrebbe disinnescare quanto prima.