Una precisazione: questa conversazione si è tenuta prima della decisione presa dal governo, nella notte di sabato 21 marzo, di chiudere tutte le attività produttive non essenziali nel Paese.

Nel tempo della pandemia da Coronavirus, mentre il numero dei contagiati e delle vittime aumenta ogni giorno, camminiamo su una soglia affilata che pare tagliare in due il mondo che ci apparteneva. Quello che fino a ieri consisteva insieme – diritti individuali e democratici, diritto alla salute – sembra oggi separarsi. C’è chi ha parlato (Mario Centeno, presidente dell’Eurogruppo) di economia di guerra. C’è chi ha parlato di economia di sopravvivenza. A Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma, e inoltre autrice di saggi importanti in difesa dei diritti di chi migra e dell’accoglienza, abbiamo chiesto un giudizio.

A cominciare dalle storie che Rassegna prova a raccontare ogni giorno. Le storie degli “essenziali”, come li ha definiti Gabriele Polo in un editoriale su questo sito. Le lavoratrici e i lavoratori richiamati ai loro “doveri” nonostante i rischi da contagio. Non solo medici e infermieri. Ma operai, addetti ai servizi, ai trasporti, alla filiera agroalimentare, ciclofattorini. Persone spesso sottopagate o in condizione di precarietà. Poi ci sono quelli che restano a casa col danno: precari e partite Iva senza protezione economica. Sembra che questo virus abbia, tra i tanti aspetti, anche il potere di mostrarci l’ingiustizia delle nostre società. Una nuova (o vecchia, ma ora smascherata) frattura ci appare?

“Gli effetti del Coronavirus sono molteplici e complessi – risponde Di Cesare – per la società, per la politica, per la nostra stessa esistenza. Credo sia sotto gli occhi di tutti l'effetto immediato, diretto sul mondo del lavoro: una discriminazione. Quelli che sono di solito consegnati alla precarietà, lo sono oggi più che mai. In questo momento la crisi del virus colpisce i più deboli, in un sistema che rischia di lasciare senza difese i più ‘esposti’. Piccolo inciso (perché se ne parla pochissimo): che ne è degli immigrati? Non se ne parla molto, però mi sembra e risulta che non ci siano regole di sorta, per loro. E ancora, quanto alle regole di contenimento del virus che dovrebbero valere per tutti, cosa avviene nei campi Rom? Un'altra questione, sempre al margine tra lavoro e diritti, riguarda il mondo non sempre trasparente, e spesso sotterraneo, dei lavori domestici. Mi risulta più di un caso di persone costrette a fornire il servizio, e quindi a esporsi al rischio contagio: vittime dell’egoismo di chi pensa solo a se stesso”. 

La situazione sembra capovolgersi curiosamente: chi perde il diritto alla mobilità è in linea di massima il privilegiato; chi lo conserva, lo mantiene come obbligo quasi servile...

“Restare a casa è per certi versi un privilegio, per altri no. Sappiamo benissimo che per molti lavoratori autonomi è un danno enorme. Insomma, non suddividerei tra mobilità e immobilità. Sta però emergendo un evidente criterio di discriminazione, che separa coloro che riescono a immunizzarsi da quanti, invece, ripeto, restano esposti. E davvero colpisce la spietatezza di questo sistema. Un modo di vivere, di intendere la vita, nel quale manca la solidarietà”.

(foto di Marco Merlini)

In diversi interventi pubblici sui media nazionali lei ha sottolineato i rischi e i limiti dell’attuale ‘democrazia immunitaria’, dove distorsioni biopolitiche si intrecciano con un governo della cosa pubblica ormai quasi esclusivamente decretale e amministrativo. L’emergenza sanitaria complica le cose, e aumenta la passività degli individui e delle comunità. Se si prospetta una crisi lunga, una questione di mesi e non di settimane, non è che la si possa vivere a colpi di decreti e misure applicate a un “gregge” più o meno obbediente. Non si può trovare un modo più democratico, condiviso, comunitario per affrontare questa crisi?

 

L'occasione per affacciarsi sull'abisso e poi risalire

“Non credo che la questione si possa porre in questi termini, ad esempio per lo scenario italiano. L'Italia è certamente, in questo momento, un laboratorio politico. Quello che sta avvenendo è l'esito di un lungo processo. Conosciamo da tempo i decreti di emergenza, anche se in questo periodo hanno assunto forme parossistiche. L’emergenza è diventata la norma. Abbiamo accettato di essere, in fondo, una nazione più o meno agli arresti domiciliari, abbiamo accettato norme di sicurezza per certi versi anche gravissime. Potevamo fare altro? Mi sembra altresì evidente che in questo periodo la politica, ormai da decenni ridotta ad amministrazione, a governance, abbia compiuto ulteriori passi indietro. Il dibattito pubblico è in mano agli esperti”.

Ognuno di noi, però ha delle responsabilità individuali. 

I cittadini potrebbero fare molto, però in questo frangente è anche difficile dire che cosa. Certo è tempo che si assumano le proprie responsabilità. Purtroppo gli ultimi anni di populismo e sovranismo hanno provocato, a mio avviso, una forte deresponsabilizzazione, tanto che avrei difficoltà a parlare persino di una comunità. Vedo solo una profonda frammentazione. Sarebbe bello poter pensare il contrario, ma così non è. A questo punto il grande interrogativo che dobbiamo porci è che cosa avverrà quando la crisi prodotta dal Coronavirus terminerà. Avrà un effetto dirompente, negativo, non recuperabile, oppure invece sarà l'occasione per affacciarsi sull'abisso e poi risalire, facendo in modo che dopo la crisi, sicuramente pagata a carissimo prezzo dai più deboli, qualcosa cambi?

(Fabio Fiorani/Ag.Sintesi)

C’è chi proverà a tornare – ingenuamente, penso io – al business as usual. Pare improbabile. Secondo lei potremmo già immaginare, per usare il lessico dei sindacati, una piattaforma sociale e politica? Un progetto di rivendicazione per il primo giorno dopo il virus? Bisognerà far pesare i sacrifici fatti dagli “essenziali”...

 

Bisognerà ricostruire

“Certamente sì. E i sindacati possono svolgere un ruolo molto importante, direi unico. Soprattutto in Italia, dove abbiamo una grande tradizione sindacale. E a maggior ragione nel silenzio ormai evidentissimo dei partiti, che proprio in questo frangente sono quanto mai assenti. Un progetto di ricostruzione potrà e dovrà venire proprio dai sindacati, dalle forze del lavoro, perché questa crisi, purtroppo, inciderà profondamente sul mondo del lavoro”.

Possiamo parlare anche di una crisi ecosistemica? C’entra l’ambiente, e in quale misura?

“In questo periodo abbiamo ascoltato molte interpretazioni sulle cause del virus, sulle sue origini. Chi non sa deve tacere, quindi mi taccio, perché non so. Non so se e come possa esserci un nesso tra la pandemia e l’ecosistema. Che ci sia un problema ecologico e ambientale però lo sappiamo tutti. Io sono tra quelli che credono, tuttavia, che il problema ambientale non si può risolvere prescindendo dal sistema economico e dal lavoro. Mi sembra un modo ingenuo e astratto di affrontarlo. È possibile che quanto provocato dal Coronavirus spinga a ripensare il nostro modello di vita. Il fatto stesso che non ci siano più voli, che abbiamo dovuto rinunciare a tante abitudini che avevamo, potrebbe indurre a cambiamenti epocali, ma è presto per dirlo”.