Abbiamo già ricordato quello che accadde la mattina dell’8 agosto del 1956 nella miniera del Bois du Cazier a Marcinelle. Dei 262 minatori uccisi, 136 erano italiani, 95 i belgi, 8 i polacchi, 6 i greci, 5 i tedeschi, 3 i francesi, 3 gli ungheresi, 1 olandese, 1 ucraino, 1 russo, il più giovane di loro aveva 14 anni mentre il più anziano 59. Una tragedia immensa, ma una tragedia non una fatalità, che parla all’oggi, più che mai, come abbiamo ricordato nel corso dell’iniziativa organizzata dalla CGIL il giorno prima delle celebrazioni ufficiali, alle quali abbiamo naturalmente partecipato con una nostra delegazione più numerosa che in passato. Quei lavoratori provenivano da ogni parte d’Europa, di un’Europa ancora sofferente e tragicamente colpita dal secondo conflitto mondiale, ma che nel lavoro (povero, davvero molto povero e sfruttato) sperava di trovare emancipazione e anche solidarietà, come testimoniano le foto dei minatori di quel periodo. Tanti italiani si sentivano fratelli, perché lavoratori, e non solo perché italiani. E si sentivano fratelli ai tanti lavoratori che venivano dal resto d’Europa.

Tutte persone che per vivere dovevano lavorare e per lavorare dovevano impiegare un pezzo della loro vita che non è merce tra le merci. Secondo l’Eurostat, nel 2019 (l’anno prima della pandemia), in Europa (27 Stati) ci sono stati 2.736.000 infortuni sul lavoro, di cui 3.355 mortali. Nel 2022, in Italia, secondo l’Inail sono stati denunciati quasi 700.000 infortuni sul lavoro, di cui più di mille mortali (1.090). Inoltre, nel 2022 sono state denunciate 60.000 malattie professionali.

Lo ha detto con parole chiare il Presidente Mattarella a Torino citando la presidente cilena Michelle Bachelet: non possiamo cambiare il nostro passato, dobbiamo apprendere da ciò che è avvenuto, è nostra responsabilità e sfida. La memoria è dunque non solo sguardo all’indietro, verso il passato, ma sfida per il presente e il futuro. La miniera di carbone, con il suo tributo di sangue operaio, è metafora viva di una condizione umana ancora oggi presente, nelle miniere di litio e di cobalto, dove il profitto capitalistico a ogni costo sacrifica bambini, uomini, donne, intere comunità. Se è così, ogni tragedia sul lavoro non può essere considerata una fatalità, non lo è mai. L’incidente a Bois Du Cozier non fu una fatalità ma la conseguenza diretta di scelte sbagliate basate sul profitto ad ogni costo: per questo è un eccidio. Com’era stato possibile non aver messo in sicurezza cavi elettrici ad altissimo voltaggio, a maggior ragione in una miniera di terza classe, come si definiva, perché usava impalcature di legno e non di ferro? Forse si tratta di domande che non riceveranno mai una risposta definitiva, ma dobbiamo porcele di nuovo, perché se la storia ha almeno un senso è proprio quello di evitare gli stessi errori.

Ancora oggi si muore lavorando a causa di scelte irresponsabili, del mancato rispetto di norme di sicurezza e di protezione della salute conquistate in anni di lotte. La legge del profitto e dello sfruttamento è ancora qui presente tra noi, anzi con maggiore forza si è affermata negli ultimi anni e lega i minatori europei di Marcinelle, la loro misera e precaria condizione di vita e di lavoro, a tanti lavoratori e a tante lavoratrici e naturalmente ai migranti di oggi.

Pensiamo al nostro paese, dove le condizioni di precarietà di vita e di lavoro costringono ogni anno 150mila persone, soprattutto giovani, a migrare altrove, in cerca di un lavoro, ragazze e ragazzi spesso con elevati titoli di studio. Migrano e non tornano. L’economia della conoscenza e per la quale si battevano Delors e il nostro Bruno Trentin non si è realizzata per i cittadini di molte parti del nostro continente tra cui, evidentemente, l’Italia. È diventata l’economia del lavoro precario e sottopagato a cui corrispondono profitti altissimi. Non migrano certo solo giovani laureati e con la fine del reddito di cittadinanza è probabile che in tanti cercheranno speranza fuori dal nostro paese Un errore enorme quello del governo italiano contro cui bisogna lottare. Ma non dobbiamo limitare il nostro sguardo. Marcinelle incarna la parabola del Novecento, con la sua traiettoria che si trascina anche nel XXI secolo, la sua eredità. Una grande contraddizione ancora irrisolta: il prezzo che si paga al progresso odierno è altissimo e nascosto dall’immagine di un consumo che è sempre più per pochi.

Quel progresso ha bisogno di sfruttare tutte le potenzialità del dominio sulla natura e di oppressione sull’uomo. Cosa rimane di interi territori devastati dalla prima e dalla seconda industrializzazione e ormai abbandonati dalla terza? Come ripensarli? Quali effetti irreversibili ha già prodotto su territori e popoli distanti ma inevitabilmente connessi, vittime senza consapevolezza di un modello di produzione che non hanno scelto e dal quale non hanno tratto alcun beneficio? C’è non solo un’analogia, ma una continuità storica tra l’evento di Marcinelle, le ragioni di quelle migrazioni, e quel che accade oggi, in pieno XXI secolo. Oggi, milioni di persone, per ragioni legate alla povertà, alla desertificazione di intere aree del mondo, determinate dall’aumento delle temperature e alle guerre conseguenti per il controllo delle risorse, si spostano verso il nord-ovest del pianeta alla ricerca della sopravvivenza.

I minatori, italiani e non solo, hanno pagato un tributo tragico all’estrazione del carbone, metafora del progresso industriale, negli anni in cui iniziava, in Europa e negli Usa, il boom economico basato su un modello di produzione e consumo ormai insostenibile per l’umanità. Oggi lo sappiamo. Dal 2015 gli sbarchi sulle coste del nostro paese porta dell’Europa non sono mai stati così alti eppure è l’anno in cui abbiamo deciso di subappaltare il controllo alle nostre frontiere a regimi autocratici, senza neanche domandarci cosa stesse accadendo nel mondo, senza capire che la causa principale di queste migrazioni è il cambiamento climatico e le guerre connesse. Il governo attuale insiste e rilancia questa linea. Secondo l’alto commissariato per i profughi e i rifugiati dal 2008 ogni anno 21 milioni di persone sono state costrette a lasciare il posto in cui vivevano a causa di inondazioni, tempeste, innalzamento dei livelli del mare, desertificazione. Negli ultimi 30 anni il numero di persone che vivono in zone costiere ad alto rischio di innalzamento del livello del mare è passato da 160 a 260 milioni di persone, pescatori, agricoltori poveri e poverissimi. Entro il 2050 un miliardo di persone sarà sfollato per i cambiamenti climatici. E tra questi anche noi.

Oggi il cambiamento climatico, cioè l’aumento esponenziale delle temperature è la più grande iniquità planetaria e colpisce i più fragili, già è una emergenza sanitaria come dimostra l’impennata del tasso di mortalità in alcune regioni del nostro paese nel mese di Luglio. Luglio 2023, non 2050. Non è l’umanità ad avere la colpa della crisi climatica, è una parte piccola dell’umanità, piccolissima che trae immense e ingiustificate ricchezze da un sistema di accumulazione produzione e consumo incompatibile ormai con la vita sulla Terra. Il capitalismo del fossile di cui il nostro governo rappresenta alfiere poverissimo e subalterno.

Per queste ragioni oggi siamo di fronte a un salto di qualità. Quella che si combatte in Ucraina non è solo una guerra convenzionale, con migliaia di vittime per la definizione di un nuovo assetto geopolitico, è la rappresentazione plastica di una guerra molto più ampia e distruttiva quella dell’uomo contro la natura. Lo ricorda Amitav Ghosh in quel piccolo capolavoro di semplicità che è il suo ultimo libro, fondamentale oggi perché ci consegna il punto di vista di chi non è occidentale, cioè la maggior parte del mondo.

L’interruzione delle catene di approvvigionamento dalla Russia è stata sostituita a costi esorbitanti dal gas naturale estratto con modalità devastanti e trasportato con navi che consumano una enorme quantità di petrolio. Questa guerra non solo ha fatto scomparire dall’agenda del mondo la priorità di contenere l’aumento delle temperature ma ha rilegittimato il capitalismo del fossile di cui il nostro governo rappresenta alfiere poverissimo e subalterno. Una portaerei non nucleare consuma 21.278 litri di carburante all’ora, un solo caccia F-16 in un’ora 6.500 litri. Negli anni della guerra in Iraq le forze armate statunitensi consumavano ogni anno 5 miliardi di litri di petrolio. Non abbiamo dati aggiornati sui consumi di carburante delle forze armate russe ma una semplice stima ci fa pensare che non siano dissimili.

Allo stesso tempo anche la necessaria transizione dall’economia del fossile all’unica sostenibile, quella compatibile con la specie umana, viene pagata dalle lavoratrici e dai lavoratori senza politiche pubbliche in grado di guidarla, orientarla, programmarla, sostenerla a livello locale e nazionale, senza accordi con le organizzazioni sindacali, senza contrattazione della necessaria innovazione a partire dalla centralità dei saperi e delle conoscenze che serviranno nel tempo che già è arrivato. È in questo contesto che si aprono nuove praterie per le destre. Il loro negazionismo è funzionale alla costruzione di consenso nelle classi lavoratrici con lo slogan prima lo sviluppo poi il clima, prima la pancia poi il futuro. Una menzogna vergognosa, una menzogna che non si combatte solo a parole ma con un progetto alternativo e un piano rivendicativo conseguente.

I cambiamenti in atto interrogano anche noi e profondamente. La storia del movimento operaio, del pensiero socialdemocratico si è fondata per lungo tempo sull’idea di un progresso lineare che le forze del lavoro sapranno e dovranno portare avanti più e meglio dei padroni, il progresso lineare inteso come crescita e redistribuzione. Oggi non è più quel tempo. Non esiste un progresso lineare ma un futuro da costruire nel tempo presente con scelte non più rinviabili.

Occorre partire dalla riconversione ecologica mettendo al centro un investimento straordinario dello stato su scienza e tecnologia da applicare alle rinnovabili, sulla decarbonizzazione come strategia vincolante e inderogabile. Allo stesso tempo occorre modificare il nostro modello sociale allargando la sfera dei beni comuni, che vanno sottratti alla compravendita e al mercato: cultura, i beni ambientali, la salute ma anche il lavoro. Una sfida per tutti noi. Una sfida per l’Europa la cui governance economica è incompatibile con la sopravvivenza del grande progetto politico nato dal desiderio di offrire all’umanità un modello alternativo a quello che ci aveva portato alle due guerre mondiali iniziate non a caso nel nostro continente.

Oggi, complice la guerra che ha già aggravato la deriva nazionalista iniziata con la crisi del 2008 e con le scelte sbagliate dell’Europa per affrontarla, siamo quasi a un punto di non ritorno. Senza cambiamenti l’Europa non ha un futuro perché sarà smembrata nei fatti dai diversi nazionalismi ma senza Europa tutto il mondo sarà più fragile. Sta a noi cambiarla dal basso per salvarla. Sta al movimento sindacale il compito di organizzare una mobilitazione collettiva per rimettere al centro i bisogni e gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori a partire da questo autunno. In Italia inizieremo il 7 ottobre con una grande manifestazione per rendere di nuovo viva la nostra Costituzione partendo dai diritti sociali sempre più mercificati nella deriva mercatista di questo lungo trentennio. La mobilitazione continuerà fino alla data europea di dicembre, ma deve essere solo l’inizio. Il futuro non è scritto ed è una nostra responsabilità. Ambiente, lavoro dignitoso, istruzione, sanità, democrazia e prima di tutto pace sono un bel programma in cui credere e per cui battersi.

Francesco Sinopoli è presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio