Biden scommette sull’unità
The New York Times, 21 gennaio 2021

Joe Biden ha iniziato la sua presidenza, mercoledì (20 gennaio), con la stessa filosofia che ha animato la sua campagna elettorale: il centro può tenere

 

È una grande scommessa. La società americana ora è più fragile di quanto non lo sia stata negli ultimi anni. È iniqua, malata e politicamente radicalizzata. La pandemia sta dilagando pressoché incontrollata.  L’economia è ridotta a brandelli. Il clima è in crisi. I residenti dell’America rossa e blu non riescono a mettersi d’accordo su una realtà che è davanti ai loro occhi, e tanto meno a definire un cammino comune da condividere. 

Biden, il 46° presidente degli Stati Uniti d’America, ha ammesso tutto questo nel suo discorso di insediamento, invitando alla cortesia: “Iniziamo ad ascoltarci l’un l’altro, a capirci, a vederci gli uni con gli altri”. “Mostriamo rispetto reciproco. La politica non deve essere un fuoco ardente che distrugge tutto ciò che incontra. Ogni disaccordo non deve essere motivo di guerra totale, e noi dobbiamo rifiutare la cultura nella quale i fatti stessi sono manipolati e persino fabbricati”.

È un messaggio ottimistico che lancia dai gradini del Campidoglio degli Stati Uniti, due settimane dopo dal giorno in cui l’edificio è stato saccheggiato da una folla che ha cercato di stravolgere i risultati elettorali. A causa delle continue minacce di violenza, mercoledì, decine di migliaia di soldati della Guardia Nazionale erano stazionati per dare sicurezza ad una presenza ridotta di persone a causa del contagio del virus.

Biden ha parlato della desolante gravità del momento, osservando che la democrazia è tanto preziosa quanto fragile. “Senza unità non c’è pace”, ha detto Biden, “soltanto amarezza e furore, non c’è progresso, solo una rabbia estenuante. Non c’è la nazione, solo una situazione di caos.” Gli ultimi quattro anni sono stati estenuanti e caotici. Donald Trump ha iniziato il suo mandato lo stesso giorno del 2017, denunciando la “carneficina americana” causata dalla povertà delle città, dalla perdita dei posti di lavoro, dalla droga e dal crimine. Dopo quattro anni, durante i quali Trump ha condotto una battaglia incessante contro i suoi oppositori politici, il paese è ancora colpito da tutti questi mali ed è ancora più staccato dalle tradizioni politiche che una volta ci legavano.

Come ultimo atto della sua presidenza, Trump e la first lady sono andati in aereo in Florida anziché condividere il palco con Biden e partecipare alla celebrazione di una transizione pacifica del potere. Ma c’è stato un debolissimo lampo di cedenza. “Auguro alla nuova amministrazione grande fortuna e grande successo”, ha dichiarato Trump ai sostenitori che assistevano la sua partenza dalla Join Base Andrews. “Credo che avranno grande successo. Hanno le basi per realizzare qualcosa di spettacolare”.

L’insediamento è, per sua natura, la chiusura di un capitolo della storia della nazione e l’inizio di un altro capitolo. Ora alla guida del potere esecutivo, insieme a Kamala Harris, la prima donna vicepresidente del paese, prima vicepresidente nera e prima vicepresidente asiatico-americana, Biden ha l’opportunità di mettere alla prova la solidità del cammino comune.  Perché il presidente e la nazione abbiano successo, ci devono essere dirigenti che condividono gli stessi obiettivi, disposti a mettere la prosperità al di sopra del proprio partito e il bene della nazione al di sopra di tutto.

L’appello di Biden all’unità non è stata una richiesta affinché gli americani la condividessero, quanto, piuttosto, un appello a vivere nella tolleranza reciproca, impegnati nuovamente nel processo democratico e giudicando pacificamente le loro differenze fino al prossimo insediamento presidenziale. Tutti gli americani dovrebbero essere d’accordo su questo.

Per leggere l'articolo originale: Mr. Biden Bets on Unity


Il genocidio è una faccenda di altissimo livello, ma l'Occidente non deve approfittare delle violazioni dei diritti umani
The Guardian, 20 gennaio 2020

Gli Stati Uniti hanno accusato la Cina di aver commesso un genocidio contro gli uiguri, mentre i parlamentari stanno esercitando pressione affinché il governo prenda una posizione più forte


C'è voluto molto tempo prima che i capi di Stato e di governo se ne accorgessero, più tempo ancora per condannare e per agire. Dato che nella regione nordoccidentale della Cina esiste una situazione di sicurezza intensa e di segretezza, c'è voluto tempo perché i ricercatori mettessero insieme le prove relative al trattamento che la Cina ha riservato agli uiguri nella provincia dello Xinjiang, trattamento che è andato dalla detenzione di massa alla sterilizzazione forzata.  Inizialmente, Pechino ha negato l'esistenza dei campi, che avrebbero trattenuto circa un milione di musulmani turchi, prima di definirli centri educativi per affrontare l'estremismo. La l'esitazione di altri governi ha rispecchiato l’ansia di mantenere i rapporti con la seconda economica mondiale.

Gli Stati Uniti sono diventati, nell'ultimo giorno del presidente Donald Trump in carica, il primo paese a dichiarare che la Cina sta commettendo un genocidio. L'amministrazione ha già individuato funzionari ed ha emesso il divieto su qualsiasi prodotto contenente cotone o pomodori che provengono dalla regione. Il segretario di stato, Mike Pompeo, ha descritto, martedì, un “tentativo sistematico da parte del partito stato in Cina di distruggere gli uiguri...di assimilazione forzata e di un'eventuale cancellazione”. Un rapporto più cauto, presentato dalla commissione bipartitica del Congresso degli Stati Uniti, ha affermato che la Cina ha commesso crimini contro l'umanità e “forse” un genocidio.

La dichiarazione di Pompeo è l'ultimo atto della presidenza statunitense, che è stato compiuto con un certo cinismo. (Non tutte le critiche per le violazioni dei diritti umani, per quanto siano giustificate, sono mosse esclusivamente da preoccupazioni per i diritti umani. Trump avrebbe detto a Xi Jinping che i campi erano la cosa giusta da fare”). Probabilmente l'annuncio non metterà fine al problema. La campagna di Joe Biden l'ha definito mesi fa un genocidio. Anche se Trump ha rotto con il precedente approccio verso la Cina, gli Usa hanno cominciato un cambiamento di entrambi gli schieramenti politici, determinato soprattutto dalle azioni di Pechino, non solo nella provincia dello Xinjiar, ma anche ad Hong Kong, dalla gestione della pandemia e dalle relazioni internazionali più in generale.

Lo stesso cambiamento è visibile nel Regno Unito, come lo dimostra la ribellione dei Conservatori di martedì al Parlamento, dove è stato respinto di misura un emendamento al disegno di legge sul commercio con 319 voti contrari e 308 favorevoli. L'emendamento sul genocidio è stato presentato dalla Camera dei Lords e sostenuto da tutti i partiti dell'opposizione, così come da una coalizione vasta fuori dal parlamento, che comprende il Consiglio musulmano della Gran Bretagna e il Comitato dei deputati degli ebrei britannici. L'emendamento prevede che le alte corti britanniche possano determinare se si sta perpetrando un genocidio, che potrebbe portare alla revoca degli accordi commerciali. Il ministero degli Esteri sostiene che le decisioni sul genocidio siano questioni complesse, e che sarebbe meglio se fossero prese da istituzioni internazionali, sapendo bene che in realtà non sono prese in considerazione e che non è richiesto dalla Convenzione sul genocidio. Il ministro degli Esteri, Dominic Raab, ha usato un tono più forte, quando ha parlato di recente di “tortura e di trattamenti inumani e degradanti...su vasta scala” nella provincia dello Xinjiang. Ma i correttivi proposti da lui, che chiedono alle aziende di praticare una due diligence migliore, sono stati deboli.

Provare un genocidio è una faccenda di livello estremamente alto: non è chiaro se la corte accetterebbe che la Cina lo approvino. La questione della vendita delle armi della Gran Bretagna all'Arabia Saudita, nonostante questa abbia raggiunto un livello record ridicolo, non è possibile affrontarla, così come non lo è stato il recente accordo con l'Egitto, che secondo gli attivisti per i diritti umani sta attraversando la peggiore crisi dei diritti umani degli ultimi decenni.

I portavoce della Cina hanno descritto “il cosiddetto genocidio” come “diceria diffusa deliberatamente da alcune forze contro la Cina, una farsa per screditare la Cina”, con questo la Cina si è dimostrata sempre più impermeabile all'opinione pubblica internazionale.

Bisogna, quantomeno, fare in modo che le imprese occidentali non si approfittino dagli abusi praticati con il lavoro forzato. È importante dire che i diritti umani contano, e non solo quando conviene al Regno Unito. Anche i parlamentari europei hanno promesso di concentrarsi sui diritti umani nel corso dell'esame del nuovo accordo sugli investimenti tra l'UE e la Cina, anche se i paesi anglofoni stanno assumendo una posizione più forte nei confronti di Pechino. Il contesto politico internazionale sta cambiando. Ma le misure da adottare possono sperare di incidere solo se i paesi che condividono le stesse idee agiranno insieme e si sosterranno a vicenda.

Per leggere l'articolo originale: Genocide is a high bar. But the west must not profit from rights abuse


La Cina tesse la sua tela commerciale nel mondo
Le Monde, 18 gennaio 2021

Mentre Washington cerca di isolare Pechino, il governo cinese sta facendo il possibile per firmare accordi commerciali multilaterali o bilaterali in Asia, in Africa e in Europa


La domanda se bisogna negoziare o meno con la Cina ha tormentato molte cancellerie, da quando Pechino, in piena guerra commerciale e tecnologica con Washington, ha aumentato i suoi gesti di apertura ovunque in tutto il mondo per trovare collegamenti meno ostili che permettessero di realizzare la crescita. Dopo aver firmato, nel novembre del 2020, il più grande accordo di libero scambio al mondo, il Partenariato regionale economico globale con quattordici paesi dell’Asia e del Pacifico, la Cina si è affrettata a proclamare “la vittoria del multilateralismo e del libero scambio”, per sottolineare l’isolamento degli Stati Uniti.

Dopo qualche settimana, la Cina ha accelerato le trattative con l’Unione europea, per arrivare a concludere, alla fine di dicembre, un accordo sugli investimenti in discussione dal 2013. Pechino, attraverso la sua ambasciata a Parigi, si è subito congratulata, affermando: “La determinazione della Cina a promuovere un’apertura di alto livello è incrollabile e le sue porte si apriranno sempre più”. È una vittoria diplomatica per la Cina, poiché riesce a slegare le relazioni con gli Stati Uniti da quelle del Vecchio Continente, evitando, in questo modo, un fronte comune tra le due potenze occidentali. Dopo qualche giorno, il 1° gennaio, entra in vigore l’accordo di libero scambio tra le isole Mauritius e la Cina. Un accordo che “rafforza le relazioni economiche con l’Africa”, dichiara Wu Penh, direttore del dipartimento Africa presso il ministero degli Affari Esteri in Cina, che promette di rafforzare anche altre relazioni sul continente. E non è finita.

Misure di ritorsione

Pechino ha oramai diciannove accordi di libero scambio, firmati con 26 paesi, che coprono il 35% del commercio estero. Alice Ekman, analista responsabile per l’Asia all’Istituto Studi per la sicurezza dell’Unione europea (Iesue), osserva: “La Cina intende aumentare il partenariato prima che si insedi la nuova amministrazione americana il 20 gennaio”. Il numero delle aziende cinesi che devono lasciare la quotazione a Wall Street è sempre più alto, dato che risultano scritte nell’elenco delle liste nere del dipartimento americano della difesa. L’ultimo fatto è rappresentato dal produttore di telefoni Xiaomi, che è stato bloccato a metà gennaio da Washington per i suoi presunti legami con l’esercito cinese. Il gigante petrolifero Cnooc è stato inserito nella lista nera del dipartimento del commercio per aver molestato e minacciato le attività di esplorazione nel Mare Cinese Meridionale. Washington vuole, inoltre, porre un freno alla capacità della Cina di importare tecnologie importanti e fermare lo sviluppo internazionale.

Gli accordi firmati con la Cina non proteggono gli Stati Uniti dalla sua ira, o dalla sua totale ostilità. La potenza asiatica ha aumentato le misure di ritorsione contro l’Australia, anche se i due paesi hanno firmato l’accordo di Partenariato regionale economico globale nel novembre del 2020. Il Regno di Mezzo, nonostante questi numerosi accordi di libero scambio, non è ancora pronto ad aprire la sua economia. Alice Ekman sottolinea: “Il partito sta rafforzando il controllo sull’economia”. Esiste, dunque, una contraddizione tra la rigidità interna del suo sistema economico e le aperture mostrate a livello internazionale”.

Le democrazie non tradiscono i loro valori democratici firmando gli accordi con la Cina? Nell’autunno del 2020, il Canada rinunciò a negoziare con la Cina un accordo di libero scambio. Le relazioni con i due paesi erano peggiorate in seguito all’arresto della direttrice finanziaria di Huawei, Menh Wanchou, avvenuto a Vancouver nel 2018, e alla successiva detenzione di due canadesi, Michael Kovrig e Michael Spavor. Il Canada decise, a metà gennaio, di vietare le importazioni di prodotti provenienti dalla regione dello Xinjiang e di punire le aziende coinvolte nella pratica del lavoro forzato, come il Regno Unito. Gli Stati Uniti, che stanno tentando di isolare Pechino conducendo una guerra violenta delle tariffe, fanno molta fatica a raccogliere i vantaggi della guerra. Nel mese di novembre del 2020, la Cina aveva importato prodotti americani solo per un valore di 86 milioni di dollari (71 milioni di euro), cioè soltanto un terzo dell’impegno assunto all’inizio dell’anno. Gli Stati Uniti, invece, continuano ad importare quantità enormi di prodotti dalla Cina, che, nel 2020, secondo l’annuncio della dogana cinese del 14 gennaio, ha registrato ancora un surplus commerciale con gli Stati Uniti del 7,1%, cioè 316.9 miliardi di dollari.

Per di più, la guerra delle tariffe tra le due potenze ha spinto le case automobilistiche Tesla e Bmw a trasferire parte della loro produzione americana in Cina per evitare i dazi doganali. Al momento la Cina non solo sta contrastando la politica americana, ma sta guadagnando punti con l’Unione europea.  Secondo Eurostat, nei primi nove mesi del 2020, quando eravamo in piena pandemia di Covid-19, gli scambi commerciali tra i due partner hanno raggiunto 425.5 miliardi di euro, rispetto ai 412.5 miliardi di euro tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Infatti, Bruxelles vuole sfruttare il dinamismo di Pechino puntando sul dialogo.

Sabine Weyand, direttrice generale del commercio per l’Unione europea, il 5 gennaio, ha scritto su Twitter: “Condividiamo lo stesso pianeta. Non saremmo in grado di affrontare le sfide globali, senza coinvolgere la Cina in un sistema di regole”. Il 30 dicembre del 2020, mentre arrivano dalla regione dello Xinjiang le testimonianze sull’uso del lavoro forzato degli uiguri e sull’aumento della repressione a Hong Kong, l’Unione europea applaude al raggiungimento di un accordo in materia di investimenti con la Cina “fondato su dei valori”.

Valdis Dombrovskis, commissario europeo al commercio, ha dichiarato in una nota interna: “Questo accordo darà impulso alle aziende europee in uno dei mercati più grandi e dinamici al mondo”, e ha aggiunto: “Abbiamo ottenuto impegni vincolanti nel settore dell’ambiente, del cambiamento climatico e della lotta contro il lavoro forzato”. Il testo, che non è stato ancora reso pubblico, garantirebbe alle aziende europee un accesso più grande al mercato cinese, esigendo il rispetto della proprietà intellettuale, la trasparenza dei numerosi aiuti di stato e il divieto di trasferimento forzato di tecnologia.

Pechino accetterebbe di ridurre gradualmente le condizioni poste dalle alleanze strategiche del settore automobilistico, liberalizzando il settore dei servizi finanziari, abolendo il divieto di investimenti stranieri nei servizi di cloud. Secondo la Commissione, questo accordo “migliora le condizioni di concorrenza” delle società europee in Cina, vietando la discriminazione negli appalti degli enti statali, che rappresentano il 30% del Pil in Cina, e imponendo “l’obbligo di trasparenza delle sovvenzioni”. In realtà, gli stati membri dell’Unione europea sono più divisi e, soprattutto, apprezzano meno i comunicati ufficiali dell’esecutivo bruxellese. Il Comitato dei rappresentanti permanenti, l’organo che riunisce gli ambasciatori degli stati membri dell’Unione europea, lascia intravedere diverse riserve in una nota interna, che Le Monde ha potuto consultare. “Alcuni stati membri (i Paesi Bassi, la Francia, l’Italia, l’Austria, l’Ungheria) hanno ricordato che deve essere data priorità alla sostanza dell’accordo piuttosto che all’urgenza della firma. I Paesi Bassi sono stati particolarmente critici, per timore che questo accordo facesse apparire una simmetria in materia di apertura commerciale tra la Cine e l’Unione europea.”

Sono state, inoltre, espresse preoccupazioni per le conseguenze dell’accordo sulle relazioni economiche dell’Unione europea con altre potenze, soprattutto con gli Stati Uniti. Jake Sullivan, futuro consigliere per la sicurezza dell’America, in un post su Twitter del 22 dicembre, ha esortato gli europei ad aspettare l’arrivo dell’amministrazione Biden per sviluppare una strategia comune nei confronti di Pechino. La Francia, la Svezia e la Spagna hanno, infine, chiesto “alla Cina un impegno chiaro per la ratifica delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil).

L’impegno raggiunto in materia di ratifica delle convenzioni Oil è poco convincente. Pechino promette soltanto “di adoperarsi per la ratifica” delle convenzioni internazionali relative al lavoro forzato. Shi Yinhong, professore di relazioni internazionali presso l’Università Renminbi, è alquanto scettico: “Lo stato cinese non accetterà mai, neanche implicitamente, che gli si possa dire che i suoi cittadini facciano un lavoro forzato, e che i sindacati non abbiano un ruolo nel loro Paese.” Per un alto funzionario della Commissione europea a Bruxelles, si preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno: “Non è con questo documento che il regime cinese cambierà, ma si tratta della prima volta che Pechino firma un accordo che accenni al lavoro forzato”. L’Unione europea sembra credere alle promesse del suo partner, ma non tutti ci credono. Shi Yinhong si chiede: “Come è possibile che la gestione di uno stato centralizzato apra i settori economici strategici al capitale straniero?”. “Negli ultimi vent’anni, la Cina non ha rispettato realmente gli accordi firmati”, aggiunge Amrita Marlikar, presidente dell’Istituto tedesco per gli Studi Globali e di Area di Amburgo. La Cina continua, ad esempio, ad usare in modo smisurato gli aiuti di stato, ad ignorare la proprietà intellettuale, e ad imporre il trasferimento forzato di tecnologia, nonostante abbia aderito all’Omc”. Se la Cina ha riportato una prima vittoria diplomatica con questo accordo, potrebbe anche trarre vantaggi economici, mentre le tensioni con gli Stati Uniti stanno crescendo. Per Ludovic Subran direttore della ricerca economica di Allianz, la Cina “Deve attrarre innovazione e capitali dall’estero”. Il suo deficit sta aumentando e ha ricevuto nel 2019 la metà degli investimenti diretti esteri rispetto al 2017”. Le promesse di liberalizzazione della seconda potenza mondiale potrebbero, però, riservare cattive sorprese. Le normative cinesi assomigliano alle bambole russe, dato che nel momento in cui spariscono, compaiono nuove regolamentazioni. Anche se Pechino dovesse eliminare le condizioni per le alleanze tra imprese negli ospedali privati, gli investitori stranieri avrebbero bisogno di una licenza”, afferma Alicia Herrero, capo economista per l’Asia e il Pacifico presso la Natixis Bank. Di fronte alle esitazioni delle due parti, la Germania, che ha presieduto la presidenza di turno del Consiglio europeo nella seconda metà del 2020, ha avuto un ruolo decisivo nel raggiungere l’accordo. Secondo Noah Barkin, ricercatore presso l’ufficio di Berlino del German Marshall Fund, Il cancelliere Angela Merkel pensa che il suo paese sia molto vulnerabile in un mondo in cui si confrontano le grandi potenze, e che non si può alienare la Cina in un momento in cui la Cina sta aumentando la sua influenza e il suo peso”.

Secondo il Rhodium Group, la Germania è stata il primo investitore europeo in Cina (840 milioni di euro) nel terzo trimestre del 2020, seguita dai Paesi Bassi (270 milioni di euro) e dalla Francia (140 milioni di euro). I giganti tedeschi, come la Volkswagen, la Bmw, Infineon, o Adidas, realizzano oramai almeno il 20% delle vendite con il gigante asiatico. Non è forse rischioso puntare su un regime dittatoriale e aggressivo all’estero? Narlikar mette in guardia: “Con questo accordo, l’Unione europea privilegia nel breve periodo i suoi interessi, i suoi valori e i suoi guadagni economici rispetto all’indipendenza economica nel lungo periodo”. La dipendenza dal gigante asiatico potrebbe anche indebolirla, soprattutto nel momento in cui vorrà delocalizzare alcune industrie in nome di una “autonomia strategica”.  Secondo una recente informativa del dipartimento del Tesoro francese, la percentuale di input importati nella produzione industriale è passata dal 29% al 39% negli ultimi vent’anni. Il 7% dei 5.000 prodotti importati nell’Unione europea dipende da pochi paesi fornitori, principalmente dalla Cina.

Dani Rodrik, professore presso la Harvard University, ha scritto in un articolo dell’11 gennaio di Project Syndicate: “Il nuovo accordo tra la Cina e l’Unione europea pone una domanda fondamentale nell’ordine mondiale post pandemia: come gestire le relazioni strategiche ed economiche tra le grandi potenze e i sistemi politici e istituzionali molto diversi”. In nome del proprio sviluppo economico, l’Unione europea preferisce avvicinarsi al suo rivale, la sola potenza che ha registrato una crescita positiva nel 2020, e si rifiuta di scegliere, diversamente dagli Stati Uniti, tra i propri interessi strategici e commerciali.

Per leggere l'articolo originale: La Chine tisse sa toile commerciale à travers le monde


“Le nuove via della seta”: i Paesi poveri nella trappola del debito
Le Monde, 18 gennaio 2021

Le cospicue somme prestate da Pechino ad alcuni Stati per la costruzione di infrastrutture potrebbero portare a inadempienze al pagamento del debito


Dopo le nuove vie della seta, il muro del debito. Decine di miliardi di dollari dati in prestito da Pechino per incoraggiare gli stati interessati al programma volto a costruire infrastrutture, rischiano di portare i paesi poveri ed emergenti ad essere inadempienti al pagamento del debito.

In realtà, la pandemia di Covid-19 ha indebolito notevolmente le loro capacità di far fronte al rimborso dei pagamenti. Le entrate fiscali sono diminuite a causa del declino dell’economia, la spesa pubblica è aumentata per far fronte alla crisi sanitaria e sociale, e, per alcuni paesi poveri, le entrate provenienti dalle esportazioni di materie prime si sono prosciugate a causa del calo dei prezzi. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la metà dei paesi poveri ed emergenti rischia di attraversare, o stanno già attraversando, una crisi del debito.

Nel dicembre del 2020, ricercatori dell’università di Boston hanno dimostrato che la Cina ha concesso loro prestiti considerevoli tra il 2008 e il 2019: 462 miliardi di dollari (380 miliardi di euro), che equivalgono ai prestiti concessi dalla Banca Mondiale nello stesso periodo, di cui la metà destinati a progetti infrastrutturali. Pechino è creditore per il 63% del debito complessivo dei paesi del G20, rispetto al 45% del 2013.

“Scandali per corruzione”

Questa politica si è interrotta nel 2016. I prestiti esteri concessi dalle due grandi istituzioni finanziarie cinesi, la China Development Bank e la Export-Import Bank of China, sono diminuiti, passando da 75 miliardi a 4 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2019. I prestiti concessi ai paesi africani sono passati da 29.4 miliardi di dollari nel 2016 a 8.9 miliardi di dollari nel 2018.

I rischi di un sovraindebitamento sono tanto finanziari quanto politici. Kevin P. Gallagher, direttore del Global Development Policy Center della Boston University, spiega: “Le inadempienze al pagamento del debito rischiano di aumentare il deficit cinese che sta costruendo infrastrutture nei paesi poveri con il danaro del debito. L’immagine della Cina potrebbe, inoltre, deteriorarsi a vantaggio del suo rivale americano.” L’influenza crescente della Cina nei paesi che si trovano lungo il percorso delle “Nuove vie della seta” è molto criticato. Diversi cittadini cinesi residenti in Pakistan, che ha investito 50 miliardi di dollari nelle infrastrutture, sono stati presi di mira. Il gruppo di ribelli dell’esercito rivoluzionario Sindhudesh, che accusa la Cina di “occupare la propria terra con la forza”, ha tentato per ben due volte di assassinare diversi cittadini cinesi a Karachi nel giugno del 2020.  Un altro gruppo, l’esercito di liberazione Baloch, ha ucciso diversi poliziotti nell’attacco del giugno del 2020, alla Borsa di Karachi, di proprietà della Cina per il 40%. Yunnan Chen, ricercatore del think tank inglese, Overseas Development Institute, ha affermato: “Ci sono stati diversi scandali per corruzione, soprattutto in Kenya, e grandi progetti costruiti e finanziati senza sostenibilità economica come in Etiopia”. A questo si aggiungono le critiche per la “trappola del debito” tesa dalla Cina, che aspirerebbe ad impadronirsi delle infrastrutture strategiche solo nei paesi inadempienti al pagamento del debito.

La Cina ha un problema con la sua diversità. Ha riprodotto il proprio modello di sviluppo in paesi in cui non poteva funzionare”, afferma Thierry Pairault, direttore della ricerca al Centro nazionale delle ricerche sociali, che osserva un cambiamento di strategia: “Lo stato cinese presta meno direttamente ai Paesi e sempre più alle imprese cinesi, che sono in grado di valutare la fattibilità economica di un progetto”.

Pechino ha aderito all’iniziativa per la sospensione del servizio del debito, annunciata dai paesi del G20 nell’aprile del 2020. L’ammontare dei rimborsi sospesi in via provvisoria è, tuttavia, molto basso. Nel mese di novembre, ha compiuto un ulteriore passo aderendo al nuovo quadro comune per la ristrutturazione del debito degli stati poveri. Yunna Chen ritiene che “Una ristrutturazione coordinata con altri paesi non avrebbe precedenti, ma è poco probabile che la Cina ristrutturi il suo debito”.

Dilazionamento o riprogrammazione del debito

In primo luogo, il fatto che alcuni prestiti cinesi non compaiono nelle statistiche ufficiali dei paesi debitori, ha portato la Banca Mondiale a chiedere che vi sia “maggiore trasparenza”. Quasi un terzo di questi prestiti in Africa sarebbero promessi o “garantiti”, cioè sarebbero rimborsati a fronte di forniture di petrolio o di materie prime. In secondo luogo, tali negoziati sono spesso politici e si svolgono bilateralmente. “Spetta al Consiglio di stato l’ultima parola”, osserva Yunnan Chen. La Cina ha firmato accordi per la sospensione del debito con almeno 11 paesi africani ed ha annunciato la cancellazione del debito senza interessi che doveva essere restituito entro la fine del 2020 da altri 15 paesi del continente.

Secondo i calcoli del Rhodium Group, 95 miliardi di dollari, ossia un quarto del debito estero della Cina, sono attualmente in fase di negoziazione da parte di Pechino. L’analisi realizzata su quasi 130 procedure di ristrutturazione negoziate da Pechino tra il 2000 e il 2020, è giunta alla conclusione che la cancellazione del debito e il sequestro dei beni non sono opzioni da perseguire. Il dilazionamento o la riprogrammazione sono più facili, anche se, come osserva il Rhodium Group, “le discussioni non sono uniformi, aperte e coordinate con gli altri finanziatori bilaterali”.

Per leggere l'articolo originale:  "Nouvelle routes de la soie»: les Pays pauvres dans le piège de la dette"


Perché l’accordo dell’Europa con la Cina avvelenerà le relazioni transatlantiche
Politico.eu, 16 gennaio 2021

Le preoccupazioni per l’attitudine dell’Europa nei confronti di Pechino stanno rovinando un esordio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti che altrimenti sarebbe stato roseo

Biden si prepara ad assumere l’incarico e gli europei sperano che possa presentare soluzioni alla disputa in corso sulla tassa digitale, affrontare le loro preoccupazioni relative alla privacy e alla sorveglianza e proporre dei modi comuni per regolamentare i social media. Hanno presentato un nuovo “Consiglio transatlantico per il commercio e la tecnologia” come il forum in cui si può creare un nuovo patto transatlantico dopo anni di scontri che hanno riguardato qualsiasi tema, dal 5G allo spionaggio ed ai sussidi per il settore aereo.

Mentre gli europei vedono tali questioni come temi distinti dal loro accordo con la Cina, i funzionari statunitensi spiegano che queste questioni non possono essere separate. La squadra di Biden ha insistito perché si lavorasse con gli alleati per sviluppare norme comuni in materia di tecnologia e diritti umani, ma solo nella misura in cui si iscrivono in una strategia più ampia che contrasti le pratiche di mercato sleali della Cina e gli abusi dei diritti umani.

Alcuni funzionari temono che la firma europea ad un accordo sugli investimenti con la Cina poco prima dell’arrivo del nuovo anno, possa limitare la capacità di Bruxelles ad esercitare una leva contro Pechino, dato che pone obblighi economici al di sopra degli obiettivi politici.

I politici europei devono chiedersi quale peso l’Unione europea attribuisce alle sue priorità di autonomia strategica, impegno bilaterale con la Cina e cooperazione con gli alleati”, ha affermato Jeremie Waterman, vicepresidente alla Camera di commercio degli Statti Uniti. “Sfortunatamente, (l'Accordo Globale sugli Investimenti tra l'Unione europea e la Cina) non sembra essere neutrale per quanto riguarda la cooperazione degli alleati con la Cina”. La divisione si presenta su ciò che ogni parte chiede e la si aspetta dal partenariato transatlantico.

L'Unione europea ha insistito per anni sul fatto che Washington dovesse compiere passi significativi per salvaguardare i dati europei, rivedere i poteri di spionaggio, definire le norme sull'intelligenza artificiale, lavorare su una tassazione più equa per i giganti del digitale e affrontare le distorsioni del mercato provocate dalle dimensioni e dal potere delle grandi imprese tecnologiche, oltre al fatto che Washington dovesse aderire nuovamente all'accordo di Parigi sul clima.

Si spera che si possa migliorare su molte di queste questioni. Biden ha detto che rientrerà nell'accordo di Parigi sul clima, e gli Stati Uniti hanno rinunciato ad imporre i dazi come ritorsione contro la tassa digitale della Francia. Ci sono anche indicazioni che la sua amministrazione possa impegnarsi nuovamente nei negoziati sulla tassazione delle imprese presso l'Ocse.

Nel frattempo, le principali cause legali antitrust dirette contro le grandi imprese tecnologiche stanno andando avanti in molti stati, e Biden ha espresso interesse nel migliorare la protezione della privacy negli Stati Uniti. È di aiuto il fatto che il nuovo presidente abbia nominato il segretario di stato Antony Blinken, amico dell'Europa, che ha trascorso gran parte della sua infanzia a Parigi.

Eppure, la decisione dell'Unione europea di andare avanti con l'accordo con Pechino ha suscitato dubbi a Washington rispetto al fatto che la Casa Bianca possa non essere mai in grado di raggiungere un'intesa con Bruxelles, e, quindi, con Berlino, sul ruolo della Cina.

Biden ha chiarito che, anche se non darà continuità alla politica di Trump sulla Cina, il paese avrà un'attenzione cruciale nella sua agenda di politica estera. Intende mettere un freno al Partito Comunista cinese attraverso un approccio multilaterale nel quale l'Unione europea, in qualità di alleato primario degli Stati Uniti, svolgerà presumibilmente un ruolo chiave.

Alla luce di questi obiettivi, il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, ha accennato, poco prima della firma dell'accordo, che l'accordo con la Cina sta danneggiando le relazioni transatlantiche in un momento in cui sono assolutamente necessari lavori di riparazione. Deve andare proprio in questo modo?

Le preoccupazioni sono tanto più gravi in quanto coincidono con un aumento dell'ottimismo di Bruxelles e di alcune capitali dell'Unione europea verso gli Stati Uniti. Subito dopo la vittoria di Biden, l'alto negoziatore al commercio dell'Unione europea, Sabine Weyand, ha proposto un nuovo “Consiglio per il commercio e la tecnologia”, dove Washington e Bruxelles potrebbero eliminare le differenze su questioni che vanno dalla tassa digitale alla privacy e alla regolamentazione online.

In un editoriale di domenica, Breton, il commissario europeo all'industria, ha rafforzato il suo impegno, invitando l'Europa e l'amministrazione Biden a "unire le forze, come alleati del mondo libero, per avviare un dialogo costruttivo che porti a principi coerenti a livello globale" per la regolamentazione della rete. Nel frattempo, un funzionario della Commissione Europea ha dichiarato che i membri dell'entourage di Biden sono già in contatto con gli omologhi a Bruxelles per dare avvio alla cooperazione rafforzata.

Non è difficile capire perché gli europei si sentano così entusiasti della squadra di Biden. Oltre all'europeismo del segretario di stato Blinken, Sullivan, sul quale è ricaduta la scelta della sicurezza nazionale, ha insistito sul messaggio che la Casa Bianca lavorerà con gli alleati invece di colpirli. Sul fronte tecnico, molti europei fanno il tifo per Anthony Gardner, l'ex ambasciatore di Obama nell'Unione europea, per avere il permesso di dirigere qualsiasi task force transatlantica, in quella che sarebbe una squadra di diplomatici americani amici dell'Europa da sogno.

La decisione di Washington di ritardare le tariffe in risposta alla tassa digitale della Francia è stato un segnale del tono nuovo dei tempi più caldi che verranno. "La loro visione del mondo è molto simile alla nostra", ha detto il conservatore tedesco Norbert Röttgen, candidato alla successione del Cancelliere Angela Merkel dopo le elezioni di settembre, riferendosi alla prossima squadra di Biden. Possono "portare nuova energia nelle relazioni transatlantiche", ha detto a dicembre a un gruppo di giornali tedeschi.

Anche gli europei lo odiano

Ma mentre la nuova amministrazione statunitense si prepara a entrare in carica, lo scollegamento discordante sulla Cina ha liberato un brivido. I sostenitori europei dell'accordo con la Cina, il cui contenuto non è stato reso pubblico, sostengono che l'accordo non abbia nulla a che fare con le relazioni transatlantiche, ma probabilmente sarà difficile da vendere a un'amministrazione Biden che ha posto gli sforzi degli alleati sulla Cina in cima al programma di politica estera.

Per la prossima squadra presidenziale, l'accordo appare problematico per due motivi: in primo luogo, sembra che l'accordo sia stato concluso per trarre vantaggio dalla diminuzione della pressione su Huawei da parte dell'amministrazione Trump in uscita. In secondo luogo, non contiene alcuna leva credibile su Pechino su questioni come il lavoro forzato, e nessun meccanismo reale per far rispettare gli impegni presi.

Washington può farsi coraggio sapendo che l'accordo con la Cina ha molti oppositori anche in Europa, non solo nel Parlamento europeo, che potrebbe farlo morire, ma anche in paesi come la Francia. "Con questo accordo, l'Unione europea non solo ha tradito i suoi valori", ha scritto in un editoriale di questa settimana il caporedattore di Le Monde, Jérome Fenoglio, "lo avrà fatto per non ottenere nulla in cambio".

In Parlamento, eurodeputati come Guy Verhofstadt e Raphaël Glucksmann, del centro e della sinistra dello spettro politico, hanno giurato di bloccare la ratifica dell'accordo per le preoccupazioni per la repressione in corso contro gli attivisti in favore della democrazia a Hong Kong e per il trattamento della minoranza uigura nella regione dello Xinjiang. "La democrazia ad Hong Kong muore davanti ai nostri occhi. E la priorità dei nostri capi di Stato e di Governo europei è venderci il loro accordo di investimento con Pechino... Come possono essere così fuori dal tempo?" ha twittato Glucksmann, eurodeputato francese del gruppo socialisti e democratici.

Ma anche se l'accordo dovesse essere silurato dal Parlamento, Biden probabilmente farebbe fatica ad ottenere il pieno appoggio dell'Europa quando si discuterà di Pechino. L'Europa è divisa sulla Cina, e la Merkel è determinata a mantenere l'accesso al mercato cinese per le auto tedesche e i manufatti avanzati. Chi potrebbe cambiare la dinamica è la nuova dirigenza in Germania, che emergerà dalle elezioni di settembre. Ma indipendentemente da chi sostituirà Merkel, l'accesso ai mercati cinesi rimarrà una priorità per Berlino. La domanda è: a quale prezzo?

Per leggere l'articolo originale: Why Europe’s China deal will poison transatlantic relations