Questo accordo non s’ha da fare. Il Ceta, il Comprehensive Economic and Trade Agreement, trattato economico e commerciale tra Canada e Unione europea entrato in vigore in forma provvisoria nel 2017, che la commissione Affari esteri della Camera si accinge a ratificare con un colpo di mano dopo anni di stand by, ha tanti elementi negativi. Gli stessi per i quali la Cgil è stata contraria fin dall’inizio.

Scarsa trasparenza

Primo fra tutti: si tratta di un accordo caratterizzato da una sostanziale scarsa trasparenza nel corso dei processi negoziali. Sebbene sia chiaro il bisogno di una forma di confidenzialità nelle diverse fasi, qui siamo in presenza di un eccesso di segretezza. Di fatto, non è stato garantito un flusso di informazioni ai cittadini e alle parti interessate.

Secondo, ma non meno importante, c’è il fatto che nel Ceta non trovano applicazione effettiva i principi della nuova strategia commerciale europea, che in base alle linee guida deve contribuire alla promozione di valori quali la democrazia, i diritti umani, sociali, di genere, e i diritti del lavoro e ambientali.

Diritti dei lavoratori, dove siete?

Né contiene il Ceta norme vincolanti o procedure esigibili volte a tutelare e migliorare i diritti dei lavoratori: l’accordo di libero scambio non va oltre un generico impegno a rispettare le norme dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) senza obblighi precisi e contiene disposizioni in materia di appalti che non includono vincoli per il rispetto di regole ambientali e del lavoro.

L’elenco delle criticità dell’Economic and Trade Agreement tra Ue e Canada è lungo ed è stato snocciolato ai componenti della Commissione Affari esteri e comunitari dai rappresentanti della Cgil, della Flai, Federazione lavoratori dell’agroindustria, e dell’associazione Fairwatch nel corso di un’audizione.

Rischio dumping

Tra le carenze evidenziate, c’è il fatto che il Ceta non coinvolge le parti sociali e le organizzazioni della società civile nella valutazione dell’impatto e non prevede un meccanismo vincolante per la soluzione delle controversie, nel caso in cui le normative sociali e ambientali vengano violate.

“Tutto questo rischia di condurre a un maggior dumping sociale – scrive Stefano Palmieri, dell’area internazionale Cgil e consigliere al Cese, Comitato economico e sociale europeo, nell’audizione –, a un aumento dei casi di violazione dei diritti sociali e a una spirale al ribasso delle condizioni di lavoro nella Ue e nel Canada”.

Investitori, lobby e democrazia

Un altro meccanismo molto pericoloso è rappresentato dalla possibilità che gli investitori esteri possano citare in giudizio gli Stati per politiche che minacciano i loro profitti e interessi commerciali: “In questo modo continuano a beneficiare di una posizione di preminenza – sostiene la Cgil – e quindi di diritti speciali rispetto ad altri gruppi della società civile e alle imprese nazionali”.

Senza contare che l’accordo prevede anche una cooperazione in campo normativo, ovvero un forum per discutere gli aspetti normativi e valutare in anticipo la compatibilità delle norme e delle procedure legislative proposte con quanto previsto dall’accordo.

“Siamo decisamente contrari all’istituzione di organismi che interferiscano con percorsi decisionali democratici – si legge nell’audizione della Cgil -: non si possono e non si devono favorire interessi privati e gruppi lobbistici dando loro un accesso privilegiato nella fase iniziale del processo legislativo e normativo”.

Agricoltura, scontro tra modelli

Di qua dell’Atlantico c’è un modello sostenibile, di là ne vige uno insostenibile che fa largo uso di fitofarmaci e pesticidi. Da questa parte si attua la produzione mista, dall’altra è diffusa quella intensiva. Qui il pubblico finanzia massicciamente, là valgono solo le regole di mercato. Nel nostro continente si garantisce e si preserva la biodiversità, oltreoceano si producono e si coltivano Ogm, cioè semi ricavati in laboratorio dalle multinazionali.

L’agricoltura europea e quella canadese sono come il giorno e la notte, due modelli di sviluppo talmente agli antipodi da essere inconciliabili. E da rendere un’assurdità favorire il commercio e l’ingresso di alimenti che per alcuni versi pensiamo siano nocivi in Europa.

Chi prevale?

Un esempio: “In Canada è stata legalizzata una lista di agenti molto più estesa della nostra con limiti all’utilizzo più alti, come il glifosato – scrive la Flai nella sua audizione -, per cui possono entrare nel nostro Paese prodotti trattati che, per le regole di garanzia allo scambio previste dal Ceta, il Canada non è tenuto a differenziare da quelli prodotti a bassa intensità di fitofarmaci”.

La Flai dunque afferma che sostenere un modello di grande scala, intensivo e non estensivo, implicherà la chiusura di molte aziende e l’abbandono contestuale di tante terre, soprattutto nelle aree rurali. I calcoli econometrici sui rischi di abbandono diretto e le conseguenze idrogeologiche sono molteplici, basta scegliere.

“Non ci sembra possibile mettere in libera connessione due modelli totalmente diversi senza il rischio reale che un mercato liberalizzato invada e rovini il nostro modello”, dice ancora la Federazione dei lavoratori dell’agroindustria.

Ogm, vade retro

Nota dolente, gli Ogm, organismi geneticamente modificati sui quali la legislazione canadese è molto diversa da quella europea. “Potremmo trovarci in un corto circuito – affermano i rappresentanti dell’area Politiche europee e internazionali della Flai –: alcuni alimenti la cui produzione è vietata in Europa rischiano di arrivare nei nostri mercati senza alcuna indicazione. Come per le farine ad alto contenuto di glifosato, potrebbe accadere per le carni clonate, magari allevate con Ogm o specifici ormoni e senza rispetto del benessere animale come inteso in Europa. Dunque mentre in Italia si definisce una strategia molto chiara sugli Ogm e sulla carne coltivata, la ratifica del Ceta potrebbe vanificare facilmente tutti gli investimenti degli ultimi anni”.

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Il commercio prima di ogni cosa

D’altra parte il testo dell’accordo afferma chiaramente che i due blocchi si impegnano a perseguire l’obiettivo comune di ridurre al minimo gli effetti negativi sul commercio della loro regolazione adottando un principio puramente scientifico. Questo dispositivo minaccia quindi la legislazione precauzionale europea, in particolare quella sugli Ogm.

“Quindi il Ceta può bloccare l'adozione di nuove normative europee, pregiudicarne il contenuto – afferma l’associazione Fairwatch nella sua audizione -, bloccare o ostacolare i tentativi di rafforzamento della legislazione comunitaria vigente, aumenterà la pressione per un cambiamento delle soglie di tolleranza della presenza di Ogm, minaccerà i requisiti di etichettatura per gli Ogm esistenti, mina, a tutti gli effetti, il principio di tolleranza zero nell'Unione europea. E questo sta già succedendo”.

Pericoli chiari a tutti

Oltre a indebolire il principio di precauzione, secondo Fairwatch il Ceta indebolisce anche l’agenda sociale, ambientale e climatica europea, introduce limiti all’attuale sovranità nazionale, rende operative una clausola arbitrale pericolosa e una misura speciale di salvaguardia che solo il Canada può applicare. Inoltre, rappresenta una grave minaccia per la capacità degli Stati di nazionalizzare nuovamente o regolamentare servizi, specie quelli di rilevanza pubblica.

“Molti rappresentanti politici che oggi sono ai vertici dei loro partiti e rappresentanze istituzionali – afferma Fairwatch –, dalla premier Meloni al ministro Salvini, dalla segretaria Schlein a tutti i livelli decisionali del M5S, a numerosi altri amministratori ancora in esercizio in Regioni, Province e Comuni, si opposero allora alla ratifica sulla base delle stesse criticità che oggi ribadiamo, e che non riguardano i vantaggi commerciali presenti o futuri di questa o quella produzione nazionale, ma il meccanismo para-istituzionale che la ratifica introduce, e dal quale l’Italia non potrà recedere”.