Il mondo non è più quello che abbiamo conosciuto finora. Da tanti punti di vista: il commercio, gli scambi, le cosiddette catene di fornitura, è cambiato tutto. E ancora molto è destinato a cambiare. La pandemia da Covid 19 prima e la guerra in Ucraina dopo ci hanno mostrato con grande evidenza i limiti di un modello basato sulla globalizzazione che da quaranta anni caratterizza l’economia mondiale e che sembra essere andato in crisi, tanto che commentatori ed esperti oggi parlano di de-globalizzazione: non un processo estremo che ci farà tornare indietro a un’epoca pre-thatcheriana, ma una tendenza a superare il sistema attuale, incentivando i mercati locali e rallentando l’integrazione tra Stati.

Negli ultimi due anni, alcuni eventi eccezionali che si sono verificati hanno avuto ripercussioni dirette su di noi e sul nostro sistema produttivo, sebbene accaduti in Paesi molto lontani. L’ostruzione del Canale di Suez, in Egitto, per esempio, dove transita il 12 per cento delle merci mondiali: a marzo 2021 una portacontainer lunga 400 metri si è incagliata su una delle sponde e ha impedito il passaggio di almeno 237 navi, molte delle quali hanno deciso di circumnavigare l'Africa. Risultato: una perdita economica di almeno 9,6 miliardi di dollari al giorno per la mancata consegna delle merci, secondo l'agenzia Bloomberg.

Un violento terremoto in Giappone, sempre a marzo dello scorso anno, ha messo in pausa la produzione di semiconduttori, creando difficoltà all’industria dell’automotive mondiale. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e in Italia ci siamo ritrovati senza mascherine e senza la possibilità di importarle, solo per dirne una. Infine, il conflitto ucraino e le conseguenti sanzioni alla Russia, e così le nostre industrie stanno incontrando difficoltà con gli approvvigionamenti di fertilizzanti, ceramica, alluminio, senza parlare del fatto che rischiamo di rimanere a secco di gas.  

La deglobalizzazione
“È in atto una sorta di deglobalizzazione, perché ci sono alcune aree del mondo che iniziano a ragionare in modo diverso - spiega Monica Di Sisto, vicepresidente dell'associazione Fairwatch, osservatorio su commercio internazionale e clima -: anziché mandare le cassette dei loro prodotti dall’altro parte del mondo, hanno capito che tenersele ha più senso. Prendi la Cina. Si era proposta come la più grossa esportatrice di semilavorati sulle filiere lunghe. Una strategia vincente che può andare bene se non succede niente, se va tutto bene, ma che non ti protegge dagli eventi incerti. E siccome è successo di tutto, adesso ha deciso che è meglio concentrarsi per un rafforzamento del mercato interno sui beni strategici: con decreto esplicito ha dato priorità nell’indirizzare le terre rare alle proprie filiere, quelle che fabbricano i chip e i pannelli solari. Adesso, dopo una contestazione di Ue e Usa, c’è una segnalazione per violazione al tribunale delle dispute della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio”.

La doppia faccia delle liberalizzazioni
Anche questo ce lo ha insegnato la pandemia. Quando la vita si fa difficile c’è bisogno di intervenire con politiche pubbliche, cosa che gli Stati hanno fatto negli ultimi tempi. Ma queste stesse politiche stanno portando a un ritorno alle tendenze protezionistiche precedenti alla Seconda guerra mondiale, contravvenendo alle regole della Wto e a quelle dei mercati liberalizzati. “Quindi da una parte si dice: proseguiamo sulla strada della globalizzazione, continuiamo a credere nel commercio globale – afferma Di Sisto -, manteniamo il più possibile aperti i confini, principio emerso anche nelle dichiarazioni finali dell’ultima ministeriale della Wto. Ma dall’altra si agisce in modo diametralmente opposto”. Dimostrazione ne è il 60 per cento di segnalazioni in più all’Organizzazione mondiale del commercio registrato negli ultimi due anni sulle politiche di disturbo alla libertà degli scambi.

Politiche protezionistiche
Gli esempi sono innumerevoli. Dopo l’Indonesia, che a fine aprile aveva annunciato lo stop sulle esportazioni di olio di palma a causa della carenza sul mercato locale e per tentare di contenere l’aumento nazionale dei prezzi, l’India un mese fa ha vietato l’export di grano in risposta all’incremento delle quotazioni a livello globale, che ha messo a rischio la sicurezza alimentare sua e delle nazioni vicini e vulnerabili. Gli Usa hanno erogato alle imprese agricole 40 mila dollari solo di interventi diretti e hanno usato misure di contenimento del commercio per sostenere il mercato interno in queste fasi, come stiamo facendo noi con l’energia.

A livello europeo un accordo tra gli Stati ha consentito in fase di pandemia di contrarre debito e di usarlo per sostenere le aziende. “I Paesi in via di sviluppo e non solo, hanno contestato queste misure che per due anni sono state fornite a piene mani e in seno alla Wto è in atto un grosso conflitto – sostiene Di Sisto -. Perché la liberalizzazione o vale per tutti o per nessuno. Questo momento di difficoltà ha fatto emergere la magagna: l’apparato normativo generale che è stato costruito funziona solo per pochi. Noi lo abbiamo sempre sostenuto. La globalizzazione avrebbe amplificato i monopoli, e così è stato”.

Accordi di libero scambio
Ma che fine hanno fatto gli accordi di libero scambio che erano tanto in voga fino a qualche tempo fa? L’attività è molto meno intensa rispetto agli anni passati. Le aree del mondo vanno concentrandosi. Gli Stati Uniti e la Ue stanno cercando di attrarre a sé i Paesi asiatici in chiave anticomunista e anticinese, in una logica di blocchi contrapposti, anche con intese di carattere politico, ma ci stanno riuscendo fino a un certo punto, perché la Cina fa la parte della mattatrice: con il suoi 1,4 miliardi di abitanti rappresenta un mercato enorme.

Allo stesso tempo gli Usa stanno cercando di stipulare accordi con le Americhe, con i Paesi del Centro e del Sud, per ottenere facilitazioni commerciali, una sorta di Nafta allargato. In Messico però il vento è cambiato, ci sono stati problemi con il Venezuela, e non è così facile come se la vende il presidente Biden.

“La grande novità è l’Unione africana – racconta Di Sisto -: i Paesi del continente hanno capito che se vogliono una cosa se la devono andare a prendere rafforzando la loro coesione. Il presidente del Senegal è andato direttamente in Russia per parlare di grano, senza passare dalla Ue e con l’avallo della Cina che sta sostenendo questa unificazione. Quel mercato ha origini e regole diverse, ma dopo gli accordi commerciali raggiunti due anni fa, ogni Stato ha la sua road map da percorrere per abbattere i dazi con i vicini. Per chi soffre la fame o ha problemi intensi di cambiamenti climatici, avere la possibilità di contrattare con gli Stati confinanti è un vantaggio”.

Gli otto negoziati dell’Europa
Intanto l’Europa è alla ricerca di nuove partnership commerciali e ha in piedi negoziati per otto accordi di libero scambio. Con il Cile per accedere agli enormi stock di litio del lago salato di Atacama, utili per la produzione di batterie. Con il Messico, per rendere quasi tutti gli scambi di merci esenti da dazi: raggiunto in linea di principio nel 2018 e finalizzato nel 2020, nonostante lo stallo tecnico l’accordo ha già fatto aumentare gli scambi del 148 per cento. Con il Mercosur, un blocco che comprende Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, cioè una popolazione di 780 milioni di persone, per eliminare sulla carta circa 4 miliardi di euro di dazi ogni anno. Poi ci sono quelli con India, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera.

“Accordi che sollevano rilevanti perplessità sotto diversi aspetti – dice Di Sisto -. Il Cile è un grande produttore di uva per esempio: il rischio è che si facciano i vini italiani con i vitigni e le uve cileni, i mostri e i semilavoratori, e ad approfittarne potrebbero essere soprattutto i produttori che non vanno troppo per il sottile. Perché dovremmo farlo? Perché se a pochi chilometri abbiamo le olive dei castelli, della Sabina, della Toscana, delle Marche, della Puglia, dell’Umbria, nel centro di Roma troviamo le bottiglie di olio con concentrato di olive che viene da chissà dove? Al commerciante conviene, il turista americano o giapponese magari neppure se ne accorge, ma il consumatore italiano? Non trova vantaggi neppure nel prezzo. I mercati in queste settimane sono inondati da ciliegie turche mentre quelle pugliesi restano sugli alberi: avete notato riduzione del prezzo?”.

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Effetto dumping
Se ci leghiamo con i trattati di facilitazione commerciale, perché i settori li chiedono dato che sugli altri mercati trovano prezzi più competitivi, non avremo più prodotti nostri, la nostra capacità produttiva diminuirà. E se scoppia un’altra pandemia, o simili, i nostri non li avremo più. È già successo. Con il riso, lo zucchero, le olive, le nostre derrate endemiche che facevamo bene: a causa di accordi stretti nel tempo abbiamo subito la concorrenza sleale dei produttori esteri. Per compensarli e regolare il mercato abbiamo chiesto a Bruxelles aiuti diretti e di alzare i dazi. Nel frattempo, le aziende hanno chiuso, delocalizzato, abbandonato i campi.

Senza contare che gli accordi commerciali spesso non prendono in considerazione i temi della protezione dell’ambiente e della tutela del diritti dei lavoratori. È il caso del trattato Ue-Mercosur, considerato il più strategico sul tavolo e anche il più prossimo a essere approvato, che ha un impatto ambientale feroce: prevede un aumento delle importazioni in Europa di materie prime alimentari, carne, uova, latte, formaggio, soia, riso e un’esportazione di merci come automobili di vecchia concezione, linee di macchinari.

“Insomma, ancora più bresaola fatta con carne di zebù e soia Ogm come mangime animale, maggiore concorrenza a danno dei produttori europei, ma nessuna contropartita per il consumatore – aggiunge Di Sisto -: non è mai successo che immettendo maggiore materia prima sul mercato si siano abbassati i prezzi”. Quindi svantaggi a 360 gradi: dal punto di vista della qualità, perché viene fornita materia prima a buon mercato, di solito più scadente di quella locale, ottenuta con lo sfruttamento dei lavoratori e con un effetto devastante sui salari. Tutte politiche che si rivelano fallimentari in periodi di crisi come questo.

La fragilità delle filiere
“Le filiere di fornitura lunghe sono fragili e una certa autosufficienza va garantita – fa notare Di Sisto -. Questo non vuol dire essere un Paese chiuso che si autoproduce il caffè o le banane, ma che sulle produzioni strategiche deve puntare sul mercato interno e si deve integrare con quello europeo. Un discorso che vale per tutto, anche per l’energia: scommettere tutto sul gas ci ha portati a una dipendenza totale, mentre avremmo dovuto diversificare, puntare sulle rinnovabili e sulle comunità energetiche. Noi ci salviamo se riusciamo a riregionalizzare l’industria strategica e le derrate principali”.

Europei in ordine sparso
E anche se facciamo parte di un mercato più grande, quello europeo, le crisi aperte dalla guerra in Ucraina ci hanno confermato tutti i limiti di un’unione che non è affatto politica: anche se gli Stati accettano ingaggi comuni, in realtà come operatori non cooperano tra loro ma competono sui mercati internazionali e questo crea fortissime divisioni. Se ci sono incertezze non fanno programmi comuni per cui merci e filiere vengono integrate, ma ciascuno va avanti per conto suo su filiere lunghe di approvvigionamento disegnate ognuno per proprio conto.

Questo fa sì che gli Stati Uniti, che sono una vera federazione, facciano programmi comuni e proteggano le aziende basate da loro: se hai i capannoni sul territorio, fai attività lì, paghi le tasse lì, e porti la ricchezza in patria, allora vieni sussidiato e difeso, altrimenti no. Lo stesso non succede da noi: chi opera in Italia viene sussidiato, ma poi può operare dove vuole, delocalizzare, vendere, ma gli aiuti non glieli toglie nessuno. “E questo riporta a una domanda: perché l’Italia non ha un’unità strategica di valutazione oggettiva dell’impatto di questi accordi? – conclude Monica Di Sisto - Una struttura pubblica che faccia un’analisi di quello che comprano gli italiani, di quello di cui abbiamo bisogno dall’estero e delle merci che possiamo e dobbiamo produrre qui?”.