Il 10 marzo del 1952, con l’appoggio delle lobby dello zucchero e con il beneplacito di Washington, il sergente Fulgencio Batista instaura la dittatura nell’isola di Cuba con un colpo di Stato. Il 26 luglio dell’anno successivo, uno studente universitario - Fidel Castro - guiderà in opposizione al regime, insieme al fratello Raul e alla testa di un centinaio di studenti, l’assalto alla caserma Moncada, avvenimento convenzionalmente indicato come inizio dei fatti svoltisi nello Stato durante gli anni Cinquanta. L’attacco fallisce ed i suoi esecutori vengono torturati, imprigionati, uccisi. Dirà il 16 ottobre nella sua lunga auto arringa al processo il giovane Fidel: “Condannatemi, non importa, la Storia mi assolverà”. Condannato a 15 anni da scontare nella prigione sita sull’Isola dei Pini e rilasciato nel maggio 1955 grazie a un'amnistia generale, Castro andrà in esilio in Messico e negli Stati Uniti.

A Città del Messico Fidel, tramite un gruppo di esuli compatrioti, conosce un giovane medico argentino, Ernesto Guevara de la Serna, idealista rivoluzionario che si appassionerà moltissimo alla vicenda cubana tanto da aderire al Movimento 26 luglio. Nella notte di Capodanno del 1959 i rivoluzionari (oltre a Fidel, Raul e al Che, ci sono Camilo Cienfuegos e Celia Sanchez) liberano L’Avana costringendo alla fuga Batista e i suoi seguaci. Un mese dopo Fidel Castro viene nominato primo ministro. Parte la riforma agraria, che nazionalizza tutti i possedimenti agricoli di estensione superiore ai 400 ettari ed il governo procede all’esproprio delle società straniere, riconoscendo la Repubblica popolare cinese e stipulando contratti commerciali con l’Urss ed i paesi del Patto di Varsavia.

Il Che ha una posizione di primissimo piano nel gruppo dirigente rivoluzionario: prima presidente del Banco nacional (1959), poi ministro dell’Industria (1961), compie numerosi viaggi in Africa e in America Latina e diventa il simbolo della rivoluzione cubana nel mondo. Dopo un lungo viaggio in Africa, nel marzo 1965 fa ritorno all’Avana e si dimette da tutte le cariche istituzionali. Scrive ai genitori: “Riprendo la strada, scudo al braccio (…) . Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che vogliono liberarsi”. E si congeda anche da Fidel con una lunga lettera che conclude così: "Avrei molte cose da dire a te e al nostro popolo, ma sento che le parole non sono necessarie e che non possono esprimere quello che io vorrei dire; non vale la pena di consumare altri fogli. Fino alla vittoria sempre. Patria o Morte” (negli ultimi mesi del 1966 il Che è in Bolivia per organizzare un’insurrezione popolare, ma nell’ottobre del 1967 viene catturato e ucciso. Solo il 17 ottobre del 1997 i suoi resti e quelli dei sei compagni che morirono con lui, arriveranno a Cuba in piccole teche di legno a bordo di rimorchi trainati da jeep. Ad attenderli una folla di diverse centinaia di migliaia di persone e Fidel Castro che dirà nell’occasione: “Perché pensano che uccidendolo avrebbe cessato di esistere come combattente? Oggi è in ogni luogo, ovunque ci sia una giusta causa da difendere. Il suo marchio indelebile è ormai nella storia e il suo sguardo luminoso di un profeta è diventato un simbolo per tutti i poveri di questo mondo”).

La reazione americana contro i rivoluzionari, intanto, non si fa attendere ed alla iniziale sospensione delle attività di importazione dello zucchero segue, il 17 aprile 1961, lo sbarco nella Baia dei Porci di circa 1.500 anticastristi armati dagli Stati Uniti. Il 1962 è l’anno più duro e con il Proclama 3447 del 7 febbraio entra in vigore il blocco economico contro l’isola, formalmente ancora attivo. Kennedy intensificherà le sanzioni contro l’isola, proibendo anche il trasporto di merci statunitensi su navi straniere che avessero fatto tappa nei porti cubani e varando l’8 luglio 1963 i Cuban Assets Control Regulations (CACR). 

I “regolamenti per il controllo dei patrimoni cubani” proibiranno l’esportazione di prodotti, tecnologie e servizi statunitensi a Cuba, sia direttamente che attraverso Stati terzi e l’importazione di prodotti cubani, sia direttamente che indirettamente, fatta eccezione per materiale informativo e opere d’arte con valore inferiore ai 25 mila dollari. Tutti i patrimoni cubani (pubblici e privati) in possesso statunitense sono congelati e viene posto l’assoluto divieto di mandare rimesse a Cuba o favorire viaggi verso gli Stati Uniti, prevedendo licenze particolari solo in caso di emergenze umanitarie (una legge del 1996 aggraverà l’embargo stabilendo che gli Stati Uniti ritireranno tutti i finanziamenti verso le organizzazioni internazionali che violeranno il blocco e annullerà le importazioni da quei paesi che effettueranno traffici con Cuba nella stessa misura delle importazioni da questi effettuate).

Per circa trenta volte, nella storia, le Nazioni Unite hanno condannato il blocco statunitense, ma dal 1962 e, in seguito, con l’inasprimento apportato dalla famigerata legge Helms-Burton firmata da Bill Clinton prima e con l’amministrazione Trump poi, le imposizioni non si sono mai fermate, neanche sotto la Presidenza Obama, neanche durante la pandemia. Eppure, nonostante il blocco, Cuba nei mesi scorsi ha esportato ‘la merce’ più preziosa che possedeva: il proprio personale medico, inviato in 28 paesi tra i quali anche l’Italia. Le “Brigate Mediche Internazionali” di Cuba hanno una lunga storia di intervento nelle emergenze sanitarie mondiali. Nel 2014 oltre 250 medici cubani andarono nell’Africa Occidentale a combattere l’Ebola: tutta la stampa internazionale, a partire dal New York Times, riconobbe che Cuba aveva avuto un ruolo da leader nella vittoria contro quel virus. Pochi anni prima i medici cubani erano ad Haiti, quando un terremoto devastò l’isola provocando una terribile epidemia di colera. Dopo l’uragano Katrina che distrusse la città di New Orleans erano pronti a partire anche per gli Stati Uniti, aiuto però rifiutato dall’allora amministrazione statunitense. Un esempio di solidarietà che per molti dovrebbe essere premiato con il Nobel per la Pace.

“Siamo stati naufraghi e ci avete soccorso - diceva salutandoli Stefania Bonaldi, sindaca di Crema -  senza domandarci il nome né la provenienza. Siete arrivati nel momento più drammatico e insieme a noi vi siete battuti per trasformare “il lamento in danza”, una danza collettiva, a riprova che le grandi battaglie non le vincono gli eroi solitari, ma le comunità, e ciò che è accaduto nella nostra terra ne è la prova, la dimostrazione.  Siamo stati comunità, per questo abbiamo vinto, siamo stati, anche grazie a voi, uno schiaffo all’Individualismo, l’alleato preferito delle avversità. Siamo stati una comunità, certo, multiculturale e umanissima. Uno schieramento che non ammetteva sconfitte e infatti non abbiamo perso”.