L’arrivo della prima tranche da 24,9 miliardi di euro dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) indica l’avvio formale di un percorso che ha l’ambizione, come suggerisce il suo stesso nome, di andare ben oltre la ripresa post-pandemica.

Abbiamo più volte evidenziato quanto, dentro questa cornice, le reti di telecomunicazione fisse e mobili rappresentino la spina dorsale del percorso di digitalizzazione del Paese.

Senza rete (o con connessioni caratterizzate da prestazioni scadenti) si lavora poco e male, a volte non si studia e in situazioni estreme, come la pandemia ci ha drammaticamente insegnato, si mettono a rischio persino i contatti sociali e interpersonali.  Il diritto all’accesso a internet è diventato dunque un diritto di cittadinanza e come tale non può essere immaginato un Paese in cui una parte di popolazione ne sia privato o non ne possa beneficiare appieno.

Allo stato attuale, sul tema dello sviluppo delle reti ultraveloci i fondi impegnati sono pari a 6,7 miliardi, con l’obiettivo, dichiarato dal governo, di garantire entro il 2026 una velocità di connessione delle reti fisse ad almeno 1 Gbit/s su tutto il territorio nazionale (il famoso “Piano Italia a 1 Giga”).

Per fare questo, nei mesi scorsi è stato avviato un lavoro di mappatura effettuato da Infratel, per raccogliere i dati riguardanti i civici che entro tale data, stando alle dichiarazioni degli operatori, beneficeranno di una velocità di connessione di almeno 300 Mbit/s. Questa è infatti la soglia minima da garantire per beneficiare degli interventi pubblici (che saranno somministrati tramite incentivi).

L’esito di questa prima ricognizione è stato reso noto qualche settimana fa e purtroppo, come avevamo avuto modo di evidenziare in più occasioni, non tiene conto delle aree a fallimento di mercato, “oggetto degli interventi finanziati con il Piano aree bianche, già autorizzato dalla Commissione europea con la Decisione SA.41647 del 30 giugno 2016, ed in corso di attuazione”. Peccato che proprio queste abbiano accumulato ad oggi grandissimi ritardi, il che preoccupa non poco rispetto al rischio di continuare ad avere un’Italia a doppia velocità.

Il rischio è che gli investimenti (pubblici e privati) si concentreranno nelle zone potenzialmente più redditizie, lasciando indietro zone rurali e ampie parti del Paese. Con l’evidente rischio di continuare a lasciare circa il 40% della popolazione (tale è la percentuale di abitanti delle aree a fallimento di mercato) in una condizione di potenziale, quando non conclamato, arretramento tecnologico aggravato da un divario storico.

Quello che continua a non convincere è inoltre la scelta di “spezzettare” con (micro)lotti la realizzazione dell’infrastruttura digitale del Paese. Alla ricognizione riguardante le reti fisse di quest’anno hanno partecipato 47 operatori (rispetto alla mappatura del 2020, si sono aggiunti 12 nuovi operatori, mentre nove non hanno partecipato).

Immaginare di anticipare al 2026 gli obiettivi europei fissati al 2030 è impresa ardua. Soprattutto se si considerano gli enormi ritardi ancora riscontrati nelle Aree bianche, dove nonostante gli investimenti in corso e il “Piano Voucher” l’obiettivo dell’inclusione sociale è ancora lontano da raggiungere. 

Il Piano in esame, come si legge, “intende favorire lo sviluppo di reti a banda ultralarga nelle restanti aree del Paese in cui si registra carenza di investimenti da parte degli operatori a causa di una minore redditività degli stessi rispetto ad aree più profittevoli.” Questo difficilmente riguarderà le zone del paese a minore densità di popolazione, alimentando quel digital divide che non è più accettabile.  

A questo lavoro di mappatura manca tuttavia ancora un pezzo, quello riguardante la presenza (in essere e/o prevista in base ai piani di copertura degli operatori nel quinquennio di riferimento 2021-2026) anche di reti mobili 4G e 5G.

L’Italia è tra i Paesi che hanno registrato una delle migliori performance nella prima fase del percorso verso la realizzazione di una rete nazionale di telecomunicazione mobile 5G. In 3 anni è passata dalla 28ma alla 17ma posizione, perché tra i pionieri del 5G insieme con Finlandia, Germania e Ungheria. Percorso che dopo uno sprint iniziale si è bruscamente fermato.

Eppure alcuni studi promossi dalla Commissione europea, avevano evidenziato quanto la diffusione del 5G avrebbe determinato in termini di benefici economici e creazione di posti di lavoro. L’infrastrutturazione della rete di quinta generazione quindi, oltre a essere un fattore abilitante per numerose nuove tecnologie, può rappresentare un importante volano per l’economia e per l’occupazione.

Attualmente non esiste una mappa delle “aree a fallimento di mercato” delle reti mobili, ovvero quelle zone del Paese in cui, per ragioni economiche, le aziende del settore non intendono essere presenti. Il censimento rappresenta dunque una buona occasione per avere una fotografia chiara della connettività mobile in Italia, con particolare riferimento alle aree extra-urbane. Sono quelle infatti le zone nelle quali va garantita copertura se si vuole realizzare l’altro grande Piano infrastrutturale, il “Piano Italia 5G”.

Fatta questa seconda mappatura, la road map del Governo prevede che tutte le gare del Piano Italia 5G vengano assegnate entro il 2022, dando così inizio alla fase realizzativa entro l’anno successivo, per arrivare alla chiusura del progetto, in linea con le scadenze imposte dal Next Generation Eu, nel primo semestre del 2026.

Il problema vero è che senza un grande player nazionale che governi l’insieme dei processi di sviluppo e di innovazione si fa fatica a immaginare un’evoluzione positiva nei tempi ipotizzati dal Governo.  Dobbiamo favorire l’accesso a tutti e quindi dovremo investire anche al di la del ritorno economico. Con queste premesse c’è il rischio di perdere entrambe le scommesse o di arrivare ancora una volta in ritardo.

Barbara Apuzzo, responsabile delle Politiche e sistemi integrati di telecomunicazioni della Cgil

Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc Cgil