La vice segretaria generale della Cgil, Gianna Fracassi, nonché responsabile dell'area Sviluppo della Confederazione, rilegge per Collettiva il Pnrr sottolineandone gli aspetti positivi e suggerendo ambiti di intervento per migliorarne efficacia ed efficienza. Innanzitutto serve il confronto e la contrattazione con i sindacati per vincere la scommessa dell'occupazione. Una ripresa senza lavoro è il rischio paventato, ma da evitare.

 

Gli ultimi atti del Pnrr sono due decreti: il primo definisce la governance e semplifica le procedure per la realizzazione dei progetti, il secondo recluta quasi 30mila persone per far partire il Piano. Qual è il tuo giudizio sull’assetto di governance definito dal provvedimento?

Quanto definito sulla governance è assolutamente insufficiente, almeno per ciò che riguarda la partecipazione delle parti sociali. Per altro, insieme a Cisl e Uil, abbiamo definito un documento che individua il ruolo e il tipo di partecipazione che vorremmo. Nel documento unitario definiamo tre livelli, quello nazionale, perché è lì che si individueranno, soprattutto nella relazione con la cabina di regia, il quadro macro e le scelte fondamentali dal punto di vista delle riforme e investimenti. Le pressioni che abbiamo fatto nelle settimane scorse hanno avuto un piccolo risultato perché il decreto è stato modificato: in quello approvato dal Consiglio dei ministri è previsto si possa convocare le parti sociali sui temi di loro competenza. Il problema è che la consultazione con i sindacati è  - appunto – una possibilità, non un vincolo, non un vero e proprio strumento di confronto preventivo sul Piano. Il secondo livello che individuiamo è quello ministeriale, molto importante perché a ciascun dicastero compete l’attuazione di una parte del Pnrr. Infine il quello territoriale: molti lo dimenticano, ma è altrettanto importante visto che una parte delle risorse si riverserà su Regioni e Comuni. 

Perché è così importante il confronto preventivo?

Faccio un solo esempio. La parte del decreto sulle Semplificazioni, dopo la mobilitazione e il confronto con Cgil Cisl e Uil, è cambiata. Il risultato raggiunto su sugli appalti è importante.  Serve un luogo per il confronto e il negoziato, che sia preventivo e sui temi che ci riguardano, o che riguardano in qualche modo direttamente e indirettamente il lavoro. Aggiungo: sarebbe stato davvero opportuno che venisse colta l'occasione per definire un protocollo di relazioni sindacali.  Il governo ha il documento delle tre Confederazioni, speriamo lo utilizzi per migliorare in sede parlamentare il decreto.

Hai citato il tema degli appalti, allora parliamo di semplificazioni. La prima versione del decreto era per voi inaccettabile, quella varata è migliorata. Tutto bene?

Il risultato è importante, perché prima di tutto è stato eliminato il massimo ribasso. Nella prima versione c’era il ritorno ad uno schema che per anni ha determinato, tra l'altro, la svalutazione competitiva giocata sulla pelle dei lavoratori, soprattutto in quei settori cosiddetti a lavoro intenso, dove - cioè - l'unico ambito di risparmio che si può mettere in campo è sui salari e sui diritti. Quindi è stato sicuramente un passo importante. Per quanto riguarda il subappalto, ossia l'altro elemento importante del confronto, assai rilevante è aver affermato che i trattamenti economici e contrattuali per i lavoratori in subappalto devono essere non inferiori a quelli previsti per i lavoratori dell’appalto principale. Finora non c'era questo obbligo, spesso si verificava che nei subappalti si applicassero contratti più poveri e con meno diritti e tutele. Non solo, anche sul fronte dei controlli anti mafia e del Durc, tra la prima e la seconda versione vi sono degli importanti passi avanti, frutto anche delle nostre battaglie degli scorsi anni.

 

Tutto bene, dunque...

Non proprio. Occorrerà in primo luogo presidiare che tale risultato non venga mutato nel passaggio parlamentare. A nostro parere, per semplificare e velocizzare le procedure per la messa a terra dei progetti, del Pnrr e non solo, occorre qualificare le stazioni appaltanti, sia in termini di personale che di numero. Trentamila sono davvero troppe. Esiste da tempo una legge che le riduce, manca il decreto attuativo. È arrivato davvero il momento di vararlo. Ancora: un terzo degli appalti viene gestito su carta, in epoca di digitale è davvero anacronistico. C’è una seconda questione che va affrontata. Nelle settimane scorse, abbiamo più volte e con forza richiamato all’attenzione sulla sicurezza. In un altro decreto, quello Sostegni, sono appostate risorse per fare  assunzioni nei servizi di prevenzione. Bene, ma non è sufficiente.  Abbiamo proposto uno strumento, la patente a punti: chiediamo se ne discuta in Parlamento nel percorso di approvazione del decreto. Infine, non ci convince l’innalzamento delle soglie per l’affidamento diretto: non convince che, per accelerare i tempi della realizzazione delle opere, si debbano ridurre i percorsi di partecipazione dei cittadini e delle cittadine nelle valutazioni di impatto ambientale. Il futuro del Paese riguarda tutte e tutti e la partecipazione è un bene importante e prezioso.

 Il Pnrr dovrebbe servire anche a disegnare l’Italia del futuro che, dovrebbe essere diversa da quella del passato.  Nel documento presentato dal governo, questa Italia del futuro la intravedi? 

Non sono d'accordo con chi dà giudizi semplificatori su quel documento. Ci sono parti importanti, anche delle nostre richieste. Penso agli asili nido, o ai tempi scuola per quanto riguarda l’istruzione. O anche al tema della transizione ambientale e della riconversione verde. Senza gli obblighi imposti dall’Europa, l’Italia non avrebbe avviato un processo di riconversione green in tempi così rapidi. Detto questo, secondo noi nel Piano non è affrontata la questione di come ricostruire filiere industriali e di sviluppo, che siano legate proprio alla transizione ambientale. Il secondo aspetto fondamentale riguarda la digitalizzazione. Anche lì serve una certa coerenza, chiediamo la rete unica – con una quota di controllo del pubblico -, pensiamo che questo sia un modo per presidiare un asset che diventerà sempre più strategico. Infine, penso sia sbagliato affidare al Piano nazionale di ripresa e resilienza tutte le speranze del Paese: è sicuramente, come avevamo sempre detto, un'occasione ma non basta. Poi ci dobbiamo mettere del nostro. E qual è il nostro? Il nostro è, attraverso le politiche ordinarie e attraverso alcune riforme che pure il Piano menziona, ricostruire un quadro di qualità, a partire dal lavoro. Significa che a fianco degli investimenti straordinari, occorre prevedere fin da subito quelli per la creazione di nuova occupazione per i giovani e le donne, in particolare per le aree del Sud. Ancora: è necessario riformare subito il sistema degli ammortizzatori sociali rendendolo davvero universalistico, cancellare alcune forme di lavoro precarie, assicurare l'universalità dei diritti. Insomma, bisogna mettere in campo un'idea di cambiamento dal punto di vista delle scelte economiche che vanno coniugate con la giustizia sociale.

Il lavoro nel Piano, sufficiente ciò che è previsto? Cosa manca? 

Per noi il parametro per valutare il Piano e il vero obiettivo dovrà essere l’occupazione e la sua qualità. Diciamo che ad oggi, da questo punto di vista, è abbastanza debole. Sono deboli le condizionalità che sono state collocate nel Piano. È importante che si sia inserita una clausola che misura l’impatto per ogni missione, soprattutto sull’occupazione di giovani e donne, però non c'è una condizionalità stringente. Bisogna, invece, garantire che la finalità sia anche la nuova occupazione, per far sì che la ripresa sia accompagnata dall'aumento dell’occupazione e non diventi invece una ripresa senza occupazione: sarebbe davvero un dramma.  Penso che nella definizione degli investimenti vadano collocate delle condizionalità stringenti, molto stringenti e non solo sugli investimenti del Pnrr, ma sia sul Fondo complementare e sulle risorse ordinarie. Inoltre c’è il tema di fondo delle scelte e degli orientamenti di politica industriale e di sviluppo che discendono direttamente dal Pnrr. È qui che si misura il ruolo dello Stato in termini di specializzazione produttiva del Paese, intesa sia nella dimensione territoriale finalizzata a ridurre i divari sia nella determinazione delle filiere strategiche. 

Ci sono due capitoli del Pnrr che, in conclusione, vorrei affrontare. Il primo è quello delle priorità trasversali, così vengono i giovani, le donne e Sud. Passando dai titoli ai contenuti, c'è una coerenza tra l'enunciazione di quelle priorità e i provvedimenti conseguenti?

Quando il Piano sarà approvato dall'Unione europea e materialmente entrerà in vigore potremo misurare il senso di quelle trasversalità. Intanto, come detto, vanno definite delle condizionalità stringenti. Certo, se guardo per esempio all'occupazione femminile, sono un po' preoccupata, il Piano rilancia settori e prevede occupazione proprio in ambiti dove la presenza delle donne è davvero scarsa. Insistiamo che, a fianco del Piano, ci debbano essere delle risorse ordinarie che sostengano quei settori, di cui pure il piano parla: penso alla sanità, al sociale, all'istruzione, ai servizi educativi, alla pubblica amministrazione, un settore ad alta intensità di occupazione femminile. E il ragionamento sulle spese ordinarie vale anche per il Mezzogiorno. Per questo quello che faremo con le prossime leggi di bilancio è rilevante, per questo va definito un vero e proprio piano per l’occupazione.

 

Infine l'ultimo capitolo è quello delle riforme. In parte lo abbiamo già affrontato con governance e semplificazioni. La Cgil ritiene qualificante la riforma del fisco.

La riforma fiscale è importante proprio per le cose che ho detto poco fa: sembra che non c'entri niente invece è fondamentale, perché se si deve fare un'operazione di redistribuzione di progressività sul costo sul lavoro e sulle pensioni, è necessario intervenire sull’Irpef piuttosto che sulla mole di detrazioni e deduzioni. Dall'altro lato bisogna ricostruire questa progressività, tassando anche i redditi diversi da lavoro e pensioni. È necessario fare una riforma complessiva dell'imposizione tributaria, per rideterminare quelle che saranno le fonti principali di intervento dello Stato. Questo significa da un lato che bisognerà riordinare tutta quella pletora di sussidi, di incentivi di natura fiscale: spesso diciamo che sono incrostati da anni. Dall’altro serve, anche, intervenire per riequilibrare le disuguaglianze fiscali. Poi c’è tutta la partita che riguarda le imprese e soprattutto gli interventi da mettere in campo per contrastare il dumping fiscale e quindi le delocalizzazioni. Sicuramente, da questo punto di vista, l’accordo raggiunto sabato scorso tra i ministri delle Finanze del G7 (aliquota globale minima del 15% per la tassazione delle grandi imprese multinazionali, applicata Paese per Paese) è importante, ma va esteso e assolutamente qualificato, innalzando l’aliquota almeno solo così si potranno contrastare le pratiche elusive e i paradisi fiscali. Poi è necessario fare una seria lotta all' evasione fiscale: non ci stancheremo mai di ricordare che la metà del Pnrr, in termini economici, ogni anno la lasciamo nelle mani degli evasori e degli elusori. Insomma, è il momento di dare ma anche di prendere. Il punto da cui partire è la polarizzazione delle ricchezze, peraltro aumentata durante la fase della pandemia. C'è chi ha dato e c'è chi ha preso. Peccato che la piramide sia assolutamente rovesciata rispetto ai bisogni. Allora, poiché è accaduto questo, è chiaro che sia importante dare un segnale analogo a quello che si sta dando in tanti Paesi, o come indicato spesso anche dal Fondo monetario internazionale: occorre redistribuire per sostenere la ripresa e non lasciare davvero indietro nessuno.