Mezzo secolo fa Claudio Napoleoni – insospettabile di antistatalismo mercatista – ebbe a esclamare: “Che cosa dev’essere la politica industriale? Credo che nessuno di noi abbia idee chiare su questo punto”. Non sono certo io a poterle chiarire. Tuttavia condivido un suggerimento della Proposta radicale: che lo Stato, al di là dei ministeri, si doti di un “pensatoio” che elabori una visione organica e di lunga lena delle tendenze spontanee dell’economia, identifichi gli interessi generali che esse trascurano, si chieda come l’azione di governo può ovviare.

Sono scettico sugli incentivi ai privati. Le debolezze della borghesia italiana – grande e piccola – snaturano l’incentivo abbassandolo a mero sussidio. In punto di accumulazione di capitale e progresso tecnico, il sistema delle imprese private dall’Unità ha solo in due occasioni espresso risultati brillanti: nel 1900-1913 e per quasi un ventennio dopo la seconda guerra. Allora furono decisivi un Giolitti non connivente col mondo degli affari e il terrore che la prospettiva del Mec diffuse tra i produttori. Sembra che il sistema risponda solo sotto costrizione. Oggi i produttori ricevono dallo Stato laute concessioni, miliardi di contributi, forniture e appalti lucrosi, sono tra i maggiori evasori delle imposte, eludono in ogni modo la concorrenza. Ma gli investimenti netti sono dal 2002 crollati, risultando addirittura negativi dal 2013; la produttività del lavoro ha ristagnato; il progresso tecnico si è spento.

Quindi la crescita s’è azzerata. Il disastro è avvenuto mentre la quota dei profitti e delle rendite sul valore aggiunto recuperava i valori perduti nel 1965-1985; i debiti aziendali scendevano sotto il 40% delle passività; si esportavano capitali; il patrimonio del 20% più ricco delle “famiglie” (fra cui quelle dei proprietari e dei dirigenti delle imprese sono ben rappresentate) raggiungeva 6mila miliardi. È allora forse comprensibile che il mondo degli affari non abbia preteso dallo Stato il contesto operativo, la cornice, che avrebbe il diritto di ottenere: un ordinamento giuridico da moderna economia di mercato e una pubblica amministrazione funzionante e funzionale. Da ultimo, nella crisi pandemica, si sono doverosamente ampliati gli ammortizzatori sociali. Ma la classe imprenditoriale, le sue rappresentanze, i media che essa monopolizza e condiziona hanno brillato nel reclamare da uno Stato gravato da 2500 miliardi di debiti trasferimenti a fondo perduto e capitale pubblico di minoranza.

Sembra quindi irrealistico immaginare che un sistema produttivo siffatto – 4,5 milioni di unità, in media con soli 3,7 addetti, i grandi gruppi ridotti alle dita di una mano – possa essere guidato o “programmato” dallo Stato nelle sue barocche articolazioni. Non risponderebbe. La nuova Iri, che alcuni sognano, è irrealizzabile. Non c’è capitale pubblico sufficiente, non c’è una classe di manager e di tecnici, come ci furono nel 1933. Nondimeno affiderei al “pensatoio” tre compiti, di grande momento: delineare la rifondazione della pubblica amministrazione; impostare secondo una visione d’assieme la riscrittura dell’ordinamento dell’economia (societario, processuale, fallimentare, amministrativo, della concorrenza); concentrare sugli investimenti pubblici la politica strutturale (che possiamo anche chiamare “politica industriale”).

Gli investimenti pubblici sono stati falciati da 54 miliardi nel 2009 agli attuali 37. Quelli nella sanità sono stati addirittura più che dimezzati a prezzi costanti: un delitto, dolo eventuale. Si deve tornare ad accrescerli. Hanno un effetto potente sulla domanda globale. Attraverso le aspettative attivano anche investimenti privati. Potenziando le infrastrutture favoriscono la produttività del sistema. Generando reddito e gettito si autofinanziano, abbassano il rapporto debito/Pil. Essi, sì, devono e possono essere programmati. Va predisposto un insieme di progetti, con gli investimenti pubblici scanditi, ordinati, secondo priorità nel tempo. I criteri di fondo, generalissimi, sono due: massimo beneficio per l’economia, massimo beneficio per la società civile. Purtroppo i due criteri possono collidere. Un ponte a Genova è buonissimo per l’economia, ma correndovi tanti camion ferisce l’ambiente, non solo localmente. Un ospedale tutela la salute di chi abita nel luogo, e tuttavia sull’attività economica può avere un effetto di domanda e di produttività inferiore a quello di un grande albergo.

Ma proprio perché non facile il programma va approntato con urgenza. I punti di forza devono essere sanità, messa in sicurezza del territorio, cura dell’ambiente, infrastrutture nei trasporti e nella logistica, Ict e 4.0, ricerca scientifica di punta, capitale umano, contrasto della criminalità. Il piano presuppone che il codice degli appalti sia riformulato, le procedure si snelliscano, i controlli acquistino rigore, la corruzione venga sconfitta. Le infrastrutture, materiali e immateriali, sono specialmente carenti nel Mezzogiorno. È quindi essenziale che la programmazione degli investimenti si orienti in particolare al Sud e costituisca la base, l’unica concretamente possibile, di un nuovo meridionalismo.

Pierluigi Ciocca è un economista, già vicedirettore generale della Banca d'Italia