Giustizia è fatta. La Corte d’Appello di Venezia riconosce l’origine professionale di una malattia in un caso promosso dall’Inca Cgil di Venezia. La vicenda riguarda un lavoratore che per quasi 25 anni aveva lavorato in una azienda impegnata nella produzione di imballaggi e contenitori e che, nello svolgimento delle sue mansioni, era stato esposto all’amianto. Secondo il ricorrente, a seguito di questa esposizione, era subentrata una patologia molto grave, un adenocarcinoma, poi asportato, ma che ha lasciato nel lavoratore una importante lesione della propria integrità psicofisica.

Il caso era stato denunciato all’Inail tramite il patronato, ma l’istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro aveva respinto il riconoscimento della malattia professionale, costringendo il lavoratore ad adire le vie legali. La prima fase della vicenda giudiziaria non ha avuto un esito positivo. Il Consulente Tecnico d’Ufficio, infatti, contestava che il lavoratore avesse avuto una esposizione all’amianto quantitativamente apprezzabile; tanto che, per ottenere il proprio diritto conseguente a una patologia così importante, il lavoratore ha dovuto ricorrere in appello.

Nell’ambito del riconoscimento delle tecnopatie di origine professionale, molto spesso il lavoratore si trova nell’evidente difficoltà di provare il nesso tra la mansione da lui svolta abitualmente e la patologia contratta; e questo anche quando l’ordinamento prevede dei sistemi di tutela che, basandosi su delle presunzioni legali, dovrebbero garantire un più facile riconoscimento delle cosiddette malattie professionali tabellate.

Decisivo un passaggio del giudice che sottolinea come nessun criterio meramente quantitativo deve guidare il Consulente Tecnico d’Ufficio nella valutazione di una esposizione all’amianto, in quanto: “È irrilevante una valutazione quantitativa dell’esposizione all’amianto per la determinazione del rischio di contrarre la malattia tumorale tabellata, a fronte della prova di una effettiva esposizione in ambito lavorativo”.

"Il patronato - ha detto ai microfoni di Collettiva Marco Bocci dell'Inca nazionale - quotidianamente può dare, attraverso operatrici, operatori, medici convenzionati e legali, una prima consulenza sulla patologia professionale e può successivamente inoltrare all'Inail la denuncia e assistere in tutti i percorsi, amministrativo e giudiziale, il lavoratore nel riconoscimento dell'origine professionale della patologia di cui soffre".

“Come Inca Cgil – commenta Sara Palazzoli, del Collegio di Presidenza dell’Inca – ci scontriamo quotidianamente con quello che per noi è un problema fondamentale, il mancato riconoscimento delle malattie professionali tabellate. Tali patologie – chiarisce-, seppur garantite da una presunzione imposta dalla legge relativa al rischio di origine, sono spesso rigettate per i più disparati motivi; il problema diventa ancora più significativo nei casi delle neoplasie, quando la gravità della patologia dovrebbe indurre consulenti e giudici a ricercare un aderente adeguamento al dettato normativo, invece che ricercare parametri quantitativi, a volte anche difficilmente riscontrabili a distanza di anni”.

“È per questo che, come Dipartimento Tutela del Danno alla Persona - spiega Sara Palazzoli -, abbiamo recentemente organizzato, con il patrocinio della Università di Perugia, un importante convegno di legali, medici legali e operatori del patronato, per analizzare i problemi di natura giuridica e scientifica che vengono riscontrati nel riconoscimento delle malattie professionali di origine neoplastica (leggi QUI); fenomeno che riteniamo ampiamente sottostimato rispetto alla realtà e che, dal nostro punto di vista, merita una forte attenzione per dare le giuste risposte a chi si ammala lavorando. A questo evento, di formazione e informazione - promette Palazzoli - ne faremo seguire altri, al fine di non abbassare la guardia su un argomento così importante per la tutela dei lavoratori. Vogliamo, infatti, ribadire l’assoluta primarietà del bene salute nei posti di lavoro. E questo soprattutto in una fase in cui, in un mondo del lavoro in continua evoluzione, non possiamo permettere, come patronato della Cgil, che il mutato sistema produttivo vada a compromettere l’integrità psicofisica dei lavoratori”.