La Cgil è impegnata da tempo per garantire il riconoscimento dei diritti e delle tutele del lavoro per i detenuti che sono impiegati alle dipendenze di datori esterni e, soprattutto, dell’amministrazione penitenziaria. È in questo caso, infatti, che si registrano i problemi maggiori, legati anche alla cronica mancanza di diritti e tutele, a partire da una lettera di assunzione che stabilisca compiti, mansioni, orario, durata del rapporto, inquadramento e retribuzione.

Questo, oltre a non stabilire come per ogni dipendente il quadro entro cui si colloca la prestazione in termini quantitativi e qualitativi, rende più complesso anche garantire le prestazioni assistenziali, quali l’indennità di disoccupazione alla cessazione del rapporto.

Al detenuto devono essere riconosciute tutte le tutele previste per gli individui liberi, perché il lavoro è un diritto delle persone ristrette, e non soltanto un’opportunità, ed è strumento cardine della rieducazione e del reinserimento, che sono il fine assegnato alle pene dalla Costituzione. Costituzione che tutela il lavoro in tutte le sue forme senza fare distinzioni fra lavoratori ristretti e non.

La Cgil è da tempo parte attiva nel promuovere ricorsi laddove l’Inps neghi, cosa che succede con frequenza, tale riconoscimento.

È di pochi giorni fa la sentenza del tribunale di Busto Arsizio che ha accolto il ricorso di una detenuta lavoratrice, assistita dalla Cgil di Milano, e che fa seguito a una precedente decisione, per una vertenza sostenuta sempre dalla Cgil di Milano, del novembre 2021, e a molte altre nel resto del Paese.

La sentenza di Busto Arsizio risponde a una odiosa discriminazione che contrastiamo con determinazione, a maggior ragione dopo che l’Inps, con il messaggio 309/2019, ha instaurato la prassi del mancato riconoscimento della Naspi a detenuti, o ex detenuti, che abbiano svolto lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.

Già un anno fa in un’iniziativa pubblica della Cgil nazionale avevamo chiesto all’Inps un impegno concreto per rivedere la posizione espressa con quel messaggio, evidenziando la consistenza delle ragioni per cui diversi giudici hanno dato e ci danno ragione. In quell’occasione erano stati presi alcuni impegni, e prospettate diverse possibilità per delineare possibili soluzioni: a oggi, nonostante ripetute sollecitazioni, ancora nessun passo è stato fatto.

L’articolo 27 della Costituzione dice chiaramente che le pene non devono mai consistere in trattamenti disumani e degradanti, e devono sempre avere un carattere rieducativo e mai afflittivo. Il lavoro è strumento cardine della rieducazione ma, per esserlo davvero, deve perdere ogni connotazione di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e diritti: orario, ferie, retribuzione, contributi, accesso agli ammortizzatori e quindi, il diritto alla Naspi.

Lo stesso ordinamento penitenziario (legge 354/1975) stabilisce che il lavoro è il principale strumento rieducativo, e che, proprio per questo, al detenuto deve essere assicurato un impiego che non abbia carattere afflittivo e che sia remunerato. Dunque deve essere garantito, retribuito e tutelato.

Oggi però su 55 mila detenuti ne lavorano solo 19 mila, praticamente un terzo, e di questi solo uno su dieci lavora per imprese private o cooperative mentre gli altri per l’amministrazione penitenziaria. Ma per questi ultimi, l’assenza delle normali tutele contrattuali, a partire dalla retribuzione contrattualmente prevista, rischia di mettere in discussione anche il progetto inclusivo e di reinserimento sociale.

In questi mesi la Cgil, insieme a decine di realtà associative espressione della società civile, diverse delle quali hanno come riferimento proprio i diritti delle persone ristrette e la qualità della vita in carcere, sta portando avanti con determinazione una mobilitazione in difesa della Costituzione e per la sua piena attuazione, che ci porterà di nuovo in piazza in autunno.

Assume quindi particolare importanza sostenere con forza, come recita l’appello Insieme per la Costituzione “quel modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali” come il diritto al lavoro e alla salute, che non possono essere diversamente esigibili a seconda del luogo dove una persona si trova.

Non è un caso che l’articolo 27 della Costituzione sia così chiaro, benché ancora non compiutamente applicato: molti dei nostri padri e delle nostre madri costituenti il carcere l’avevano provato, e sapevano bene di cosa si trattasse.

Daniela Barbaresi, segretaria confederale Cgil