Le donne in carcere rappresentano il 4 per cento del totale delle persone ristrette. Ma non è solo perché si trovano in un sistema pensato e declinato al maschile, che scontano una pena maggiore. La scontano perché donne: oggi ancora di più, visti gli attacchi di questo governo alle grandi conquiste delle donne dei decenni scorsi, a partire dall’abolizione del delitto di onore, fino alle leggi su divorzio e interruzione volontaria di gravidanza.

È di poche settimane fa il ritiro della proposta di legge sui bambini in carcere, presentata nella precedente legislatura, e già approvata alla Camera, a causa degli emendamenti assolutamente peggiorativi presentati dai partiti della attuale maggioranza, in linea con un pensiero che vede la pena solo in senso sempre più afflittivo, tradendo il mandato costituzionale, e in linea con il pensiero vetero-patriarcale di questo governo, un pensiero moralistico che riporta la donna solo al ruolo di madre angelo del focolare.

Il senatore di Fratelli d’Italia Edmondo Cirielli ha infatti proposto, in aggiunta al mantenimento comunque delle madri in carcere, di togliere la responsabilità genitoriale a tutte le donne ristrette. Diversi esponenti del governo hanno accompagnato la proposta con esternazioni del tipo “si fanno mettere incinta per continuare a delinquere”, riconducendo anche questo a determinate etnie, tanto per rimarcare il razzismo di certa politica.

La Cgil ha sostenuto anche con recenti iniziative che proprio per il senso e il significato che la Costituzione attribuisce alla pena, alle donne ristrette deve essere garantita la possibilità di essere madri nel modo migliore possibile per loro e per i loro bambini, che la genitorialità deve trovare una declinazione, per quanto possibile, serena. E che deve essere garantito il diritto di ogni bambino a una infanzia dignitosa e libera, fuori dal carcere. Devono essere superate quindi sia le sezioni nido che gli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri), e create le case famiglia protette, già previste dalla norma e mai realizzate, tranne due in tutto il Paese, a Roma e a Milano.

La Cgil dice basta e dice no a tutto questo, e lo ha ribadito proprio nel giorno della festa della mamma: insieme alla Società della Ragione, che ha promosso un mese fa la campagna “Madri fuori”, per la dignità e i diritti delle donne condannate e dei loro figli, la confederazione sostiene che le madri devono uscire fuori, fuori dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini. La campagna ha visto iniziative in tante città italiane, in diverse sezioni femminili per incontrare le donne recluse, parlare con loro, ascoltare le loro parole, le loro richieste.

A seguito dell’appello, alcuni consiglieri del Comune di Milano hanno presentato un ordine del giorno per sollecitare il sindaco e la giunta che, fra i vari interventi proposti, anche nei confronti di Regione e Parlamento, sostiene anche l’esperienza della casa famiglia esistente, mentre la giunta capitolina ha presentato una mozione che impegna il sindaco e la giunta ad attivarsi per aderire alla campagna Madri Fuori e per sostenere iniziative nella sezione femminile del carcere di Rebibbia.

Denise Amerini è responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti della Cgil 

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