Gigliola Foschi è giornalista, critica d’arte e della fotografia, e docente all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Ha curato la nuova esposizione, presso la Camera del lavoro cittadina dedicata agli storici scatti di Io interno...tu liberi, con i quali Gian Butturini raccontò, attraverso la forza delle immagini, la rivoluzione basagliana. 

Perché è importante ricordare oggi Franco Basaglia, a cento anni dalla sua nascita, e perché è molto di più che un semplice anniversario?

Franco Basaglia, con l’apertura del “frenocomio” San Giovanni di Trieste e poi con la legge 180 del 1978 (non a caso detta legge Basaglia) ha compiuto una rivoluzione fondamentale: il riconoscimento dei diritti del malato, della sua appartenenza alla società civile, del suo essere prima di tutto una persona da curare, cui stare vicino umanamente. Ma i diritti, come ben si sa, vanno difesi, sostenuti. Oggi ricordare Basaglia significa risollevare la questione della “follia” per non dimenticarla, per fare sì che le idee di questo grande psichiatra si trasformino in un maggior impegno a costruire una rete efficiente di servizi di salute mentale. Troppo spesso le famiglie sono lasciate sole a gestire situazioni difficili, troppo spesso finiscono per affidare i loro cari in mani inadeguate, in centri con pratiche terapeutiche molto discutibili. Come ricorda Oreste Pivetta, nel testo che accompagna la riedizione del libro di Gian Butturini, anche le pratiche di contenzione non sono state ancora davvero abbandonate. Nel 2009 il maestro Francesco Mastrogiovanni, rinchiuso nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania, venne di fatto ucciso da ottantasette ore di contenzione, legato al proprio letto, privato di cibo e di acqua. Ecco, ricordare Basaglia significa impegnarsi affinché non accadano più casi come questo e chiunque abbia bisogno possa trovare centri capaci di costruire percorsi di cura e accudimento.

La mostra è una riedizione di “Io interno...tu liberi”, del 1977. Un’occasione per ricordare anche Gian Butturini, fotografo che ebbe un ruolo fondamentale nella rivoluzione basagliana. Con i suoi scatti, la rese “visibile” al mondo.

Prima di lui, alla fine degli anni Sessanta, grandi fotografi come Luciano D’Alessandro, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin avevano denunciato e mostrato gli orrori e la desolazione della condizione manicomiale. Quando Gian Butturini viene invitato da Basaglia stesso a Trieste, il compito che lui gli affida è invece quello, ben più difficile, di raccontare i primi passi verso la liberazione degli ex degenti e il loro ritorno alla socialità. Basaglia non poteva scegliere un fotografo migliore: Butturini s’identifica totalmente con la rivoluzione basagliana e riesce a creare immagini capaci di cogliere i primi momenti di cura e accudimento, i primi sorrisi di chi era stato privato di tutto. Grazie alla sua grande umanità, alla sua straordinaria capacità di empatia, riesce a raccontare la rivoluzione di Basaglia e della sua équipe ponendosi subito dalla parte dei malati. Tant’è che questi lo riconoscono e lo accolgono subito come un amico, non come un intruso. A lui non interessa, infatti, fare inquadrature ben studiate, che richiedono di assumere una posizione da “esterno” o di farsi quasi invisibile, ma riesce a raccontare il cambiamento proprio perché lo vive in prima persona assieme a chi lo sta compiendo, assieme ai medici, ai volontari, ai malati. Come scrive lo stesso Gian Butturini, a lui interessava creare un libro capace di “coinvolgere il lettore con immagini che facciano riflettere su quanto è stato fatto, e su quanto resta da fare”.

Uno dei capisaldi della rivoluzione basagliana fu curare i matti con i diritti. Nelle foto di Butturini salta agli occhi il contrasto tra l’immensa umanità dei volti e la desolante disumanità dei luoghi.

Il diritto a cui pensava Basaglia era quello di mettere in primo piano la persona e non la malattia, come invece accadeva nei manicomi. In sintonia con tale messaggio, Gian Butturini ritrae gli ex degenti in modo spontaneo, senza metterli mai in posa, accettando anche il loro rifiuto a essere fotografati: non a caso, una delle prime fotografie del libro è quella di una donna che protende la mano verso l’obbiettivo per nascondere il proprio volto. Quell’immagine è una sorta di simbolo di come gli stessi degenti, chiusi per anni nei manicomi, avessero introiettato una sorta di vergogna di sé stessi e si sentissero indegni di venire guardati e ritratti. Subito le fotografie del libro ci fanno capire il perché di quel gesto, mostrando lo squallore disumano dei reparti ormai chiusi, capaci di togliere ogni speranza a chiunque. Poi inveceecco la liberazione, il ritorno dei sorrisi e dei rapporti umani, tra balli e passeggiate lungo le vie di Trieste.

Gian Butturini è stato un artista rivoluzionario nei linguaggi e nei contenuti. A lui si devono anche importanti documenti fotografici e cinematografici sul mondo del lavoro. Grande attenzione dedicò, infatti, alle lotte sindacali.

Sì ha sempre lavorato dalla parte degli ultimi, di chi soffriva o di chi lottava per un mondo più giusto. Per lui la fotografia era uno strumento comunicativo che, sulla base della storia da raccontare e documentare, poteva essere sostituita, nel caso risultasse più efficace sul piano comunicativo, con un video o con un film. Proprio in questi giorni, nel cantiere dell’Esselunga di Firenze, c’è stato l’ennesimo disastro e l’ennesima strage di lavoratori. Ebbene, già nel 1975 Gian Butturini girò il documentario Crimini di pace sulle morti bianche nei cantieri edili e sulla condizione alienante dei pendolari che da Brescia andavano ogni mattina a Milano per lavoro. Un documentario prezioso, non solo perché la musica è di Luigi Nono e contiene un’intervista a Basaglia, ma anche perché mette il dito nella piaga di una condizione lavorativa che, invece di migliorare, è solo peggiorata tra appalti, subappalti e sotto-sotto-appalti che rendono sempre più difficili i controlli e le attribuzioni di responsabilità. Nel 1980 Butturini realizzò anche un’importante film, di recente restaurato dalla Cineteca Nazionale di Roma: Il mondo degli ultimi, dedicato alle lotte contadine nelle campagne padane tra il 1947 e il 1949. Lì c’era ancora un padrone, c’erano i lavoratori uniti nella lotta perché tutti erano nella medesima condizione di sfruttamento. Certo, nel film le loro rivendicazioni finiscono drammaticamente con l’uccisione di un contadino e nella sconfitta; ma fa tristezza sapere che oggi il capitalismo si è fatto sempre più astuto: i lavoratori non si confrontano più con un proprietario ma con un groviglio di società, mentre l’unità sindacale risulta ostacolata dalla strategia di isolare i lavoratori e porli l’uno contro l’altro. Chi può scioperare o lottare se non ha neppure un contratto di lavoro? Se è un immigrato senza permesso di soggiorno?

Non è casuale quest’attenzione di Butturini ai temi della salute mentale e del lavoro insieme. Le sue foto raccontano “i matti fuori”, alle prese con una vita fatta di piccole cose normali. Lo stesso Basaglia fece dell’occupazione un elemento fondamentale del percorso di cura, scardinando e ridisegnando il concetto di ergoterapia.

 Sono d’accordo. A Butturini interessa raccontare proprio quello cui più teneva Basaglia: come riuscire a portare i “matti” fuori, come farli accettare dalle persone del luogo in cui vivono, come impostare una terapia di cura che non li isoli ma li faccia sentire all’interno di una comunità, con persone vicine cui poter fare riferimento. Non a caso, tra le sue molte immagini troviamo anche la storia che dedica a Regina, una profuga istriana internata per una depressione post partum. Regina di lui si fida, Butturini stringe con lei amicizia, decide di dedicarle il suo tempo: la accompagna al mercato e ai giardini, giocano insieme a carte. Nel frattempo la fotografa, certo, ma lo può fare perché si mette nella posizione dell’amico o di un partecipe assistente sociale. Alla fine della giornata trascorsa assieme, Regina gli mostra anche le foto dei suoi figli e gli dice “te vogio ben”. Questa dichiarazione commovente d’affetto non solo dimostra come Butturini fosse capace di voler bene e di farlo sentire a chi gli sta vicino. Ma fa capire anche a noi, che guardiamo le sue fotografie, come i “matti” non siano solo persone da curare: possono contraccambiare, donare anche molto a chi stabilisce un rapporto autentico con loro.

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