Quest’anno Franco Basaglia avrebbe compiuto cento anni. E chissà cosa avrebbe detto, guardandosi intorno, di questa società di matti, dove tutto sembra un po’ impazzito. Tra i tanti semi della sua rivoluzione scientifica ce n’è uno che, germogliando, ha dato vita a qualcosa che prima non c’era. Cinquantuno anni fa nasceva la Clu, la Cooperativa Lavoratori Uniti, nella sua Trieste, fondata da 16 pazienti dell’Ospedale Psichiatrico e da altri 12 soci fra medici, psicologi e infermieri. Questa storia è ripercorsa nel documentario di Erika Rossi, scritto insieme a Massimo Cirri, dal titolo 50 anni di Clu, presentato in prima assoluta ieri, 20 gennaio, al Trieste Film Festival. Un’esperienza che ha rivoluzionato il concetto di lavoro associato alla cura della malattia mentale, scardinando la pratica della ergoterapia e restituendo ai pazienti psichiatrici i diritti civili e costituzionali che erano loro negati. Ma ha fatto molto di più, aprendo la strada all’impresa sociale e al cooperativismo, che molti anni dopo, nel 1991, verrà riconosciuta per legge. È proprio Massimo Cirri, che tutti conosciamo come conduttore radiofonico e che è anche psicologo, a guidarci in questo viaggio a Trieste, tra passato e presente.

Cirri, com’è nata l’idea di questo film?

Chiacchierando tra amici, nello specifico con Luisa Russo, che è stata dirigente della Cooperativa, su cosa si potesse fare per dare il giusto risalto ai cinquant’anni della Clu. La regista, Erika Rossi, è la persona che conosce meglio di tutti in Italia il patrimonio di materiali cinematografici e televisivi su Franco Basaglia. I casi della vita ci hanno fatto incontrare e nel 2018 abbiamo portato in scena una sorta di spettacolo teatrale su Basaglia, insieme a Peppe Dell’Acqua, con la sua regia. È stato naturale chiedere a lei di cimentarsi nel racconto di un cambiamento epocale, compiuto da un gruppo di persone che per la prima volta al mondo pensano la possibilità di una città senza manicomi. Trieste.

Per la mia seconda domanda, ne prendo in prestito una che si pone lei, all’inizio del viaggio, e che dà abbrivio alla narrazione. Cosa c’entra il lavoro con il manicomio? Cos’era l’ergoterapia e perché il suo superamento è stato così avveniristico?

Il lavoro è un fattore fortemente identitario, un elemento decisivo nella rappresentazione di se stessi. Noi siamo anche molto, forse troppo, il lavoro che facciamo. Spesso uno dice “sono un ragioniere” non “faccio il ragioniere”. Nel manicomio c'era questa finzione dell'ergoterapia, nata con nobili intenti, dall’ipotesi che se tu hai una sofferenza mentale, forse fare qualcosa ti tiene occupato. Ma poi questa cosa era diventata qualcos'altro. Il manicomio si alimentava del lavoro degli internati. Per esempio quando, in inverno, la ditta che vinceva l'appalto per il riscaldamento scaricava le sue tonnellate di carbone davanti al padiglione dell’istituto, erano proprio gli internati che dovevano trasportalo con i secchi e le carriole fino alle caldaie. In cambio, ricevevano un pezzo di metallo, una sorta di moneta virtuale, di bitcoin ante litteram, da utilizzare nello spazio dell’ospedale, per avere un pacchetto di sigarette Alfa o una bibita. Il manicomio era talmente una società chiusa che batteva una sua moneta.

Ma quella ormai non era più ergoterapia. Era far fare il “lavoro sporco” a qualcuno senza doverlo pagare.

Era diventato qualcos’altro, in effetti, che in molti ambivano a fare anche per uscire un po’ dalla mortificazione del manicomio. E allora il grande salto fu cercare di far capire che se quello è un lavoro, va trattato come tale. Peppe Dell'acqua racconta che ci mettono mesi e mesi di discussione in assemblea per costruire il meccanismo che potrebbe modificare l’inerzia dell’istituzione. E il meccanismo sarà quello della Cooperativa, in cui le persone non più per scelta individuale, ma in quanto parte di una collettività, diventano consapevoli del fatto che se io lavoro, ho diritto a una paga, al riconoscimento di un diritto, alla mia dignità. Oltre a essere matto, sono anche una persona che lavora.

Tutti noi abbiamo bisogno di “pensarci anche altro”. E questo vale anche oggi, cinquant’anni dopo, soprattutto per chi ha – citando di nuovo una sua frase dal documentario- la vita interrogata da una grande sofferenza mentale.

Sì, vuol dire che anche oggi, nel 2024, un giovane o un signore di mezza età che ha la vita devastata dalla sofferenza, si vede garantita la possibilità di essere matto tutte le volte che deve esserlo, ma può anche essere qualcos'altro. Può essere un signore che lavora, un socio della Cooperativa, uno che porta a casa un pezzetto di stipendio. E questo vuol dire che rimane sofferente, rimane matto, qualsiasi cosa voglia dire questa parola, ma continua a essere anche altro. Insomma - come diceva lei - abbiamo tutti bisogno di pensarci anche come altre cose. Come uno che ha le sue paturnie, ma che si sveglia presto tutte le mattine per andare al lavoro. Si occupa del verde, o di altro, ha i suoi compagni di lavoro che gli stanno simpatici, oppure no.

Il documentario riflette molto anche sul presente, e spinge a ragionare su cosa sia oggi il disagio mentale. Dalla pandemia in poi, il malessere sembra essere deflagrato. La psicoterapia però appare ancora come un “bene di lusso”, non riesce ad arrivare in quelle periferie non solo territoriali, ma anche dell’anima, in cui ci sono troppe domande che non trovano una risposta.

Condivido pienamente. A me sembra davvero che si faccia ancora troppo poco per rispondere a un bisogno complesso, fatto di molte sfumature sottili. Non nego assolutamente il valore della psicoterapia, si figuri, ho fatto questo per tutta la vita. Ma a un ragazzo di 18 anni non possono bastare solo quei due incontri a settimana di quaranta minuti l’uno. Bisogna costruire un contesto di socialità, dei luoghi di riferimento, in cui quel ragazzo si muove, fa degli scambi umani ed emotivi. L’intervento psicoterapico pensato nella Vienna di fine Ottocento mi sembra ormai molto riduttivo. Dobbiamo costruire una società della cura. Qualche giorno fa siamo andati nell'ex ospedale psichiatrico di Milano con un gruppo di ragazzi dell’ultimo anno di un liceo classico milanese. Abbiamo parlato loro di Basaglia e loro sono stati capaci di aprirsi. Tanti ci hanno raccontato quanto gli abbia fatto bene andare allo sportello psicologico scolastico, avere la possibilità di parlare con i loro insegnanti di come ci stanno, nella loro vita. E non solo del greco e del latino. E come dicevano questi ragazzi, la questione è “che cosa ne facciamo di noi quando siamo fragili?”. Ci hanno raccontato di tutti quei momenti in cui si sono sentiti matti, fuori dal mondo, incapaci di stare nella vita. Ma quello che li ha salvati è stato riuscire ad attraversare il disagio senza trasformarsi in “quello matto della classe”.

A proposito dei fragili, che ancora oggi la società rifiuta e il mercato del lavoro fagocita. Al contrario, la Cooperativa Lavoratori Uniti, che tutt’ora esiste, accoglie, accompagna in un percorso di presa di consapevolezza della propria fragilità, a cui finalmente queste persone riescono a dare un nome. Tra i pregi del documentario, c’è quello di far parlare gli attuali lavoratori della Clu.

Sì, è così, è accompagnare queste persone anche mentre attraversano “i casini della vita”. Come Franco, il signore tutto tatuato, che nel film dice di avere un carattere litigioso e che, per questa ragione, per un periodo era andato via dalla cooperativa. “Poi- dice – sono tornato perché nella vita si cambia, ora ho una figlia”. E quando gli chiedo cos’ha fatto nei dieci anni lontano dalla Clu, lui mi risponde “Mi sono molto dedicato alle rapine”. Ecco, visto che siamo abituati a pesare il valore economico di tutto, io mi chiedo quanto vale il ritorno di Franco in cooperativa? A quanti tabaccai è stata risparmiata una brutta rapina, a quanti agenti di polizia penitenziaria è stato risparmiato di aver a che fare con il carcerato signor Franco, che quando è incazzato non deve essere proprio una passeggiata. Pensare che il giudice che lo ha condannato sette, otto volte è il marito della dottoressa che lo ha convinto a tornare in cooperativa. Questo ci dice che c’è un sistema, c’è una rete intorno a Franco, che non lo ha lasciato solo, che gli ha permesso di dedicarsi molto alla pulizia delle strade, invece che alle rapine in banca.

Chiudiamo così come abbiamo aperto. La Clu non solo cambia il modo di intendere il lavoro “dei matti”, ma anche l’intero mercato del lavoro, con la nascita del concetto di impresa sociale. Oggi in Italia si contano 20.450 cooperative, associazioni e società censite nel Paese, e centinaia di migliaia di cittadini impiegati, nel segno dell’inclusione sociale.

È nato tutto lì, da un gruppetto di operatori sanitari in Friuli. Dalla psicoterapia, si è passati alle tossicodipendenze e, man mano, alla costruzione della macchina della cooperazione sociale. Avevano capito che potare le rose, pulire le strade, poteva offrire la possibilità di rimettersi in gioco. La cooperativa lo sa, ti conosce, sa quando stai talmente male da non riuscire ad alzarti dal letto. Sa come fare con te quella mattina, in quei due giorni, in quei due mesi. Sa fare da ponte con gli altri servizi territoriali. Non ti abbandona mai.