C’è stato un tempo in cui se guardavi Sanremo ti vergognavi a dirlo, un po’ come chi nei primi anni duemila votava Berlusconi. Ma questo succedeva prima di Amedeus, o come è stato ribattezzato, l’Amadeus ex Machina. Oggi non è più così: rockettari, melomani, puristi della canzone d’autore e appassionati del pop non disdegnano di farsi una squadra al FantaSanremo, e tirano tardi per vedere chi vincerà. Fosse anche solo la classifica provvisoria. Ma soprattutto, centinaia di migliaia di giovani sotto i trent’anni, che normalmente ignorano il palinsesto del prime time di Rai Uno, si sono sintonizzati facendo schizzare gli ascolti di una rete che nel resto dell’anno fa ben altri numeri.

NOI SIAMO I GIOVANI

Amadeus, l’ex disc jockey che ha dismesso le cuffie e ha indossato il doppio petto, non ha però mai dimenticato la sua vera passione: seguire e scoprire i talenti musicali del momento, per dare loro spazio. E, gliene va dato atto, nel corso di questi cinque anni ne ha portati diversi a Sanremo. Alcune edizioni hanno visto anche la presenza di cantautori di riferimento come Max Gazzè e Daniele Silvestri, o l’affermazione di una nuova poetica autoriale come quella di Colapesce e Dimartino. Amadeus ha persino portato su quel palco perle di rara bellezza, purtroppo quasi sconosciuta al mainstream, come la musica e i testi di Giovanni Truppi.

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TRA I VIOLINI E LA TRAP 

Ma soprattutto, ha sdoganato senza più alcun indugio la presenza dei trapper a Sanremo. Una di quelle cose che sembrano una contraddizione in termini, un ossimoro sonoro: chiedere a un’orchestra di decine di elementi di seguire l’autotune. Si potrebbe muovere l’accusa verso chi scrive di essere una boomer il cui ascolto “è invecchiato male”. Ma la critica non è rivolta al genere in quanto tale. Piuttosto è indirizzata verso un intero modo di fare musica, che sostituisce allo strumento la sua -  quasi totale –  assenza.

POLITICA A TEMPO DI TUNZ TUNZ

Forse il motivo è che per parlare di “cose serie”, come nell’Onda Alta di Dargen D’Amico, ci devi ballare sopra? Testo molto interessante, ma un po’ meno cassa in quattro quarti l’avrebbe valorizzato di più. Il discorso è un po’ diverso per pezzi come quelli di Ghali, Casa mia, o di BigMama, La rabbia non ti basta in cui, invece, musica e parole sono inscindibilmente legati a un modo di essere e di esserci, di raccontare il mondo intorno. Lo si può dire anche per la vincitrice, Angelina MangoLa cumbia della noia è mezzo e messaggio al tempo stesso. Angelina ha stregato la critica, premi per lei come se piovesse. Va però detto, per correttezza, che solo il tempo ci dirà se siamo in presenza di genio artistico o di raffinata produzione in serie di hit estive. Testi, a modo loro, politici in un mare di sofferenze amorose ed esistenziali, che ormai si affermano come la cifra stilistica di una intera generazione di millennials non risolti, alla ricerca del proprio io. Bravi Gazelle, Diodato, Mahmood. Persino Sangiovanni riesce a volare un po’ più in alto delle sue farfalle. Ma la classifica non li gratifica.

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DA MASSINI A MANNINO

I grandi temi non sono completamente assenti, anche se arrivano soprattutto fuori dalla gara. Come la canzone sulle morti sul lavoro, L’uomo nel lampo, interpretata da Stefano Massini e Paolo Jannacci, ospiti della terza serata. La politica al Festival ci è arrivata, in qualche modo. Anche con le matite scambiate tra cantanti per guadagnare bonus al FantaSanremo. In realtà un appello al diritto di voto promosso dalla petizione per una legge che semplifichi la partecipazione dei fuorisede che fanno fatica a spostarsi per votare. E poi il ricordo di Giò Giò Cutolo che ha aperto la prima serata, gli appelli alla pace di alcuni tra ospiti e concorrenti, il monologo ambientalista e femminista di Teresa Mannino (per quanto un po’ forzato e fuori da quelle sue corde che la rendono esilarante).

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THE SHOW(BIZ) MUST GO ON

Tornando alla gara, quello che è emerso con forza in quest’ultima edizione ancor più che nelle altre, è la vittoria della forma sulla sostanza, del personaggio sull’artista, della performance sulla canzone. Se Sanremo è una fotografia del paese, c’è da arrendersi al fatto che la tecnologia abbia preso il sopravvento sull’armonia. La stessa figura del direttore tecnico viene ormai decostruita e sostituita dalla “crew” che segue la rapper o il trapper. Giovani artisti che però hanno bruciato le tappe, saltando direttamente dai localini alle major, grazie al potere di un successo che si quantifica in milioni di streaming. Se però la musica che dovrebbe contestare il sistema ne diviene poi il suo prodotto, l’effetto rivoluzionario si annulla. Quel modo di fare musica fuori dalla logica dei circuiti e delle etichette, quel rifiuto dello showbiz, che invece oggi è la pletora di cui questi stessi artisti si nutrono. L’indie, forse, non esiste più e ha lasciato spazio a un grande H&M della musica, in cui tutti sono alternativi. Quindi nessuno lo è. Bene che il “sistema Sanremo” si apra ad altri generi, cercando pubblici nuovi e nuovi interlocutori. Meno bene se questi generi tradiscono la natura originaria di frattura, perché puntano a assorbiti dal sistema.

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DIMMI QUANDO QUANDO QUANDO

Che altro resta di questa edizione 2024, l’eredità di Amadeus? Qualche canzone buona, in una classifica che oscilla dal tormento al tormentone. Quello costruito a tavolino da Annalisa, con la sua alternativa disco-pop al Quando quando quando di Peppinodicapriana memoria; quello dei The Kolors, alla ricerca di Italodisco due la vendetta. E infine quello dei Ricchi e poveri, che fa quasi tenerezza, all’idea di voler competere con altre energie. Anche se gli anni passano, si può invecchiare con stile senza passare mai di moda, rimanendo autentici. Come Loredana. Anche noi siamo pazzi di lei.

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