Si celebra oggi, 16 giugno, la giornata internazionale del lavoro domestico, giusto riconoscimento nei confronti di chi si prende cura, delle nostre case, dei nostri, bambini e bambine, dei nostri anziani e anziane. Persone, quasi al 90% sono donne, indispensabili per la nostra sopravvivenza familiare e sociale eppure i lavoratori e le lavoratrici  si barcamenano tra precarietà, lavoro nero e sfruttamento. La giornata di oggi, allora, ha senso se è utile a fare il punto sulla condizione reale di chi è così prezioso per le nostre vite.

Partiamo dai numeri

L’Inps si è dotato di un Osservatorio sui lavoratori domestici (dimenticando che nella maggior parte sono donne visto che nominalmente le cancella) che però viene pubblicato a fine giugno di ogni anno, quindi al momento possiamo ragionare sui dati contenuti nel Rapporto 2024 che contiene i dati del 2023. Le lavoratrici e i lavoratori domestici contribuenti all’Inps nel 2023 sono stati 833.874, in flessione per il secondo anno consecutivo (-7,6% rispetto al 2022).

La spiegazione che dà l’Istituto non riguarda la diminuita necessità di accudimento delle famiglie ma che finito il Covid non c’era più tanta necessità di regolarizzare: “Nel biennio 2020-2021 si sono registrati incrementi dovuti ad una spontanea regolarizzazione di rapporti di lavoro per consentire ai lavoratori domestici di recarsi al lavoro durante il periodo di lockdown e all’entrata in vigore della norma che ha regolamentato l’emersione di rapporti di lavoro irregolari”.

Indispensabili ma irregolari

A dirlo è uno studio della Fondazione Einaudi dal titolo “Lavoro domestico e formazione- Strategie per colmare il Gender Gap e valorizzare il welfare” per le famiglie di Nuova Collaborazione, associazione nazionale dei datori di lavoro del comparto, che indica numeri e percentuali nient’affatto incoraggianti. Nel dossier si afferma che circa un dipendente su due è irregolare.

Come si arriva a queste cifre? Semplice si prende il dato di 833.874 lavoratori e lavoratrici che nel 2023 hanno versato i contributi all’Inps, poi si prende la stima che l’Istat fa per lo stesso anno degli addetti del settore: oltre 1,6 milioni, si fa la differenza tra le due cifre e l’amara realtà si afferma nella sua drammaticità. La metà della forza lavoro domestico non ha contratto né contributi.

Chi sono?

Sempre a legger l’Osservatorio dell’Inps si scopre che tra chi un contratto e i contributi li ha l’88,6% sono donne, la quota di badanti (49,6%) ha ormai quasi raggiunto la quota Colf e babysitter (50,4%). La tipologia “Colf” è prevalente tra i lavoratori italiani e quasi tutti i lavoratori stranieri, ad eccezione di quelli provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Asia Medio Orientale, dal nord America e dall’America Centrale, in cui prevale la tipologia “Badante”.

Sono avanti negli anni, l’età media è alta, il 18,1% di loro ha tra i 55 e i 59 anni, il 23,9% ha un’età pari o superiore ai 60 anni e solo l’1,5% ha un'età inferiore ai 25 anni.

Da dove arrivano e dove lavorano?

La maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori domestici proviene dall’Europa dell’Est, sono 297.373 pari al 35,7% del totale; seguono i 259.689 quelle e quelli di cittadinanza italiana (31,1%), poi arrivano dal Sud America (8,1%) e dall’Asia Orientale (5,8%).

La regione che ne contrattualizza di più è la Lombardia sono 162.227 (19,5%), seguita dal Lazio (14.1%), dalla Toscana (8,8%) e dall’Emilia Romagna (8,6%). In queste quattro regioni si concentra poco più della metà delle lavoratrici e dei lavoratori domestici con contratto in Italia.

Il bisogno di cura aumenta

Non c’è bisogno della cartomante per sapere che aumentando l’età media della popolazione, aumenta anche la necessità di chi si prenda cura di quanti avanti con l’età fan fatica ad accudire la casa e se stessi. Secondo il Rapporto 2025 preparato da Assindatcolf-Idos: “Family (Net) Work – Laboratorio su casa, famiglia e lavoro domestico” si stima che “nel 2028 saranno oltre 2 milioni e 74 mila i lavoratori domestici – tra regolari e irregolari – di cui avranno bisogno le famiglie italiane per coprire le necessità di assistenza domestica e di cura alla persona.

Rispetto al 2025, l’incremento complessivo sarà di circa 86 mila unità, circa 28.574 domestici in più all’anno nel triennio 2026-2028, così suddivisi: 8.729 lavoratori italiani e 19.845 lavoratori stranieri, di cui ben 14.471 non comunitari (pari al 73% degli stranieri e ad oltre il 50% del totale)”.

Che fare?

Una soluzione ci può e ci deve essere. A suggerirla è Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos: “Nell’attuale modalità di gestione dei flussi di lavoratori stranieri dall’estero, che già presenta conclamate disfunzionalità legate alle chiamate nominative, alla stipula dei contratti di soggiorno, al rilascio dei permessi per lavoro, alla precarietà dei contratti e quindi della permanenza regolare in Italia, far rientrare formalmente le assunzioni dei lavoratori domestici non comunitari all’interno di una programmazione realistica delle quote, che tenga conto del fabbisogno effettivo di manodopera aggiuntiva, è il primo passo per rendere regolare, trasparente e tracciabile l’intero percorso di inserimento occupazionale dei migranti”.

Occorre partire da un lavoro dignitoso

Se è vero che nel settore esiste molto lavoro domestico, se è vero che in parte – ma solo in parte e non è una giustificazione – dipende dalle difficoltà delle famiglie lasciate sole rispetto ai bisogni di cura dei propri componenti, è ancor più vero che lavoratrici e lavoratori hanno diritti che devono essere riconosciuti.

Dice infatti Emanuela Loretone, della Filcams Cgil nazionale: “Il lavoro di colf, badanti e baby sitter, delle e degli assistenti familiari, è fondamentale per la società e per l’organizzazione delle famiglie”.

Come Filcams, prosegue, “lo sosteniamo da sempre e siamo lieti del fatto che ciò sia riconosciuto da tutti gli studi effettuati dalle associazioni datoriali. Le associazioni datoriali però sono responsabili del mancato rinnovo del contratto di settore, scaduto da ormai tre anni. Per riconoscere il valore economico e sociale del settore, è innanzitutto indispensabile riconoscere il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori ad avere il contratto collettivo rinnovato”.