La liberazione di Bologna

E arriviamo finalmente alla liberazione di Bologna. Aspettavamo da ottobre la fine di quell’incubo. Erano passati già 5-6 mesi dal fatidico momento in cui si pensava di riuscire a liberare la città. Furono mesi durissimi. A causa dello spionaggio messo in campo dai tedeschi e dalle brigate nere, avevamo subìto la perdita di più della metà dei partigiani che operavano in città. Ad aprile facemmo i conti e in troppi mancavano all’appello, come inghiottiti dal buio di quei mesi terribili dell’inverno 1944.

In quel periodo mi trovavo in zona Tavernelle, sulla via Emilia. Per la precisione, la base l’avevamo a Rigosa. Non si poteva stare più di 2-3 notti in una casa per il rischio di essere scoperti. La nostra staffetta si chiamava Stella: era una ex infermiera che in quel momento non lavorava in ospedale. Era una bellissima e bravissima donna, molto coraggiosa. Ci disse che la parola d’ordine che dovevamo sentire per radio era: «Domani ci sono le corse all’ippodromo». Era l’espressione usata per dire che gli alleati stavano arrivando e noi dovevamo insorgere perché ci fossero meno danni possibili alle strutture della città, che era ormai allo stremo dopo anni di bombardamenti.

In quei giorni c’era stata anche una strana «emigrazione» interna. Se si girava per Bologna, poteva capitare di sentire, all’altezza degli sfiatatoi dei palazzi, puzza di letame determinata dal fatto che molti abitanti delle zone rurali avevano portato i loro animali in città per scampare alle razzie dei tedeschi. Questi ultimi si prendevano con la forza numerose bestie perché erano alla fame anche loro. Non ricevevano più rifornimenti da parte della Germania e si arrangiavano come potevano, rubando tutto quello che capitava loro a tiro: non solo mucche e vitelli, ma anche cavalli, pollame, conigli. Era un bel problema perché dare da mangiare il fieno agli animali in città non era proprio agevole. Non era un fenomeno generalizzato, ma c’era anche questo a Bologna.

Torniamo ai giorni di Rigosa. Noi stavamo in campagna e ci eravamo piazzati vicini a una radio per poter sentire la parola d’ordine. La corrente elettrica non c’era per niente. Per fortuna avevamo una delle prime radio a pile esistenti. Eravamo sintonizzati su Radio Londra: si sentiva un po’ sì e un po’ no. Aspettavamo i messaggi speciali per i partigiani. Per ascoltarla ci davamo il cambio giorno e notte, ma avevamo anche i collegamenti con i partigiani e con le staffette, che erano ancora lì in zona, per lo più nascoste perché le spie avevano fatto il loro lavoro e ci avevano decimati. Una staffetta ci disse: «Guardate ragazzi che qua non ci potete più stare perché abbiamo avuto una segnalazione: i tedeschi potrebbero arrivare da un minuto all’altro».

Noi comunque ci potevamo difendere perché eravamo tutti armati. Io avevo uno Stan, un fucile inglese, e una pistola P38 tedesca con un caricatore, e bombe a mano. Ma potevamo mettere a rischio le persone che ci ospitavano perché se i tedeschi arrivavano non facevano distinzione, sparavano a tutti, anche alle donne e ai bambini che in quelle case abitavano.

Io e altri due allora ci spostammo dentro il cimitero di Bologna, la Certosa. Il direttore, che era un conoscente di un’altra staffetta più giovane che si chiamava Gianna, ci disse: «Ci sono delle tombe di famiglia e cappelle di nobili dove potete sistemarvi». Un terzo si era sistemato da un’altra parte. In attesa del messaggio convenuto, il direttore del cimitero ci aveva messo a disposizione la sua radio elettrica, ma a causa delle continue interruzioni di corrente decidemmo di riprenderci una radio con le pile e ci mettemmo in ascolto.

Il 20 aprile, nella nottata, arriva il segnale: «Domani ci sono le corse all’ippodromo». Eravamo tutti felici: ci preparammo e aspettammo le staffette per capire dove dovevamo entrare in azione. Alle 4 del mattino a me e ad altri 45 partigiani fu dato l’ordine di andare a salvaguardare il ponte della ferrovia che era ancora in piedi con alcune arcate. Era stato bombardato, ma era ancora in efficienza una rotaia su quattro. I tedeschi la stavano minando per ritirarsi.

Nella notte c’era stato un gran movimento, molti distaccamenti si stavano sganciando dal fronte: era iniziata l’offensiva angloamericana con grossi mezzi e si presumeva fosse imminente l’arrivo degli alleati. All’alba partimmo in bicicletta e andammo io e altri due al ponte della ferrovia, mentre altri ancora andarono al ponte sul fiume Reno dove era rimasto un piccolo passaggio utile per far transitare una jeep, ma stavano minando anche quello, così come stavano minando la centrale elettrica che stava in via Agucchi, che era la centrale per le ferrovie della città di Bologna.

Noi conoscevamo bene il ponte della ferrovia perché da bambini andavamo lì a pescare e a giocare con i nostri coetanei. Arrivammo e vedemmo già i tedeschi al lavoro. Io, che conoscevo abbastanza bene il tedesco, gridai: «Mani in alto!». Anche loro erano stanchi della guerra, e alzarono subito le mani. Li disarmammo e gli dicemmo: «Guardate che la guerra è finita, se avanzate con le mani in alto lungo questa strada non troverete più un tedesco, si sono ritirati».

Di lì a poco arrivarono i polacchi e poi tutti gli altri: gli americani, gli inglesi, i sudafricani e le diverse truppe che stavano al confine. E quindi non ci fu nessun problema. Mi ricordo che incontrammo un’altra pattuglia di partigiani, uno di loro mi chiese come si dice «mani in alto» in tedesco. «Hände hoch», gli risposi. Più tardi incontrammo un’altra staffetta che ci disse: «Finite queste operazioni ci concentriamo tutti alla caserma dei bersaglieri Magarotti», che sta nel centro di Bologna, che è dove effettivamente ci ritrovammo a Liberazione avvenuta.

Con noi avevamo un pilota ufficiale americano originario di Boston, «Gianni», che – colpito – si era buttato con il paracadute e l’avevamo recuperato noi nella zona di Anzola. Così avevamo il traduttore, anche molto simpatico. Era stato con noi 4 o 5 mesi nelle nostre basi e parlava bene l’italiano. Il primo incontro con le truppe alleate fu con un gruppo di sudafricani proveniente da una missione all’acquedotto. Ci dissero che avevano dovuto sparare ai tedeschi perché non si erano arresi. Gli chiedemmo: «Ma cosa gli avete detto?». «Gli abbiamo detto: “Tante room ma antero”». Che non vuol dire niente: un modo come un altro per aprire il fuoco senza rischiare pericolose reazioni.

Eravamo il primo gruppo di partigiani su una jeep in compagnia di un colonnello sudafricano. Ci dirigemmo all’appuntamento alla caserma Magarotti, dove, oltre a tutti quelli della 7a Gap, c’era la 63ª Bolero. La caserma poteva ospitare migliaia di persone, anche per dormire la notte. C’erano le cucine, così mi occupai insieme ad altri, avendo il senso dell’organizzazione, di far da mangiare, visto che nella dispensa c’era rimasto qualcosa. Le brande c’erano, ma non erano sufficienti per tutti: per cui la prima notte di Liberazione, il 21 aprile del 1945, non fu il massimo del comfort; in tanti dormimmo per terra, ma fu una festa comunque.

Dopo alcuni giorni feci un salto al Bargellino per vedere se c’erano ancora i miei familiari, mia madre, mia sorella, i miei nonni, i miei zii. Mio padre sapevo già che era morto nel ’44. Poi tornai di nuovo alla Magarotti, dove rimasi ancora un po’ di tempo in attesa dello sviluppo degli eventi.