Quando rotola un pallone dentro un prato rettangolare, la tendenza di ogni tifoso o appassionato è dimenticare il resto, avvolti da un velo di magìa in cui il tempo per oltre novanta minuti sembra esser sospeso, salvo tornare a scorrere nella sua normalità dopo il triplice fischio. Eppure, malati o meno di calcio, dovremmo tutti cercare di non dimenticare la realtà dei fatti, la società in cui si vive. E si muore. Come nell'evento che il grande circo dello sport più diffuso del pianeta si appresta a celebrare: i Campionati del mondo in Qatar, un Paese giovanissimo, fondato più per necessità economiche che conseguenze storiche, sin dalla nascita conosciuto non solo per le ingenti risorse petrolifere, ma per le sue altrettanto enormi disparità e atti di repressione in tema di negazione dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle donne.

Da qualche anno, da quando nel 2010 la Fifa ha deciso di affidare al Paese Arabo l'organizzazione dei Mondiali di calcio 2022, la mancanza di diritti si è spostata ancor più sul mondo del lavoro, in particolare verso quei milioni di migranti provenienti da tutto il mondo, sfruttati e vittime durante la costruzione degli impianti in Qatar. 

Di questo si occupa il libro dal titolo Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento (Infinito edizioni, pp. 84, euro 12), di Riccardo Noury, scrittore e giornalista, portavoce di Amnesty International Italia. Libro che, oltre a numerose notizie e testimonianze della quasi totale mancanza di rispetto dei diritti civili, cerca soprattutto di rispondere a due domande: per realizzare il sogno di ospitare un Mondiale di calcio, quante vite umane sono state sacrificate? E a quali limiti estremi è arrivato lo sfruttamento del lavoro migrante? Secondo i dati pubblicati dall’Autorità per la pianificazione e le statistiche, dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 lavoratori stranieri di ogni età e occupazione. Di questi, 9.405 (il 63 per cento) erano di origine asiatica, in gran parte (l’87 per cento) uomini.

 All’autore chiediamo per prima cosa se le cifre riportate sul libro debbano essere aggiornate: “Il numero reale non  lo sapremo mai, erano persone che non avevano tantissimi legami sociali in Qatar, dove vige il divieto di costituirsi in sindacati. E con una rete di legami molto labile è difficile recuperare un’anagrafe completa di chi è rimasto ucciso in questi anni.  Recentemente The Guardian ha riferito di circa 6.500 vittime accertate, causate dalle condizioni di sfruttamento estremo, dai colpi di caldo, con l’odiosa aggravante che le autorità del Qatar non hanno ammesso alcuna responsabilità, mescolando le carte tra "morti di lavoro" e "sul lavoro", attribuendo questi decessi a problemi “cardio-circolatori”: ma questo è l’effetto, non la causa. Di conseguenza nessun approfondimento, niente risarcimenti, numerose omissioni”.

Pur consapevoli della risposta, tutti ci siamo chiesti in questi anni come sia stato possibile assegnare la sede dei Mondiali 2022 al Qatar, così lontano, non solo geograficamente, dal pianeta calcio; e naturalmente si tratta di “una questione economica che ha fatto la differenza - ci conferma Noury -: ma nel libro non entro nella denuncia della corruzione, sarebbe stato un supplemento investigativo alla mia ricerca che avrebbe portato in altre direzioni. Quello che a me interessava in maniera particolare era la situazione dei diritti umani, in Qatar già sotto gli occhi di tutti, ma che ora chiama direttamente in causa la Fifa, visto che è lei ad avergli assegnato i mondiali. Quello che accade dopo è anche una sua ben precisa responsabilità”.

Eppure in questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, sembra quasi esserci stata una sorta di complicità per favorire l’immagine di un progressivo processo di democratizzazione, ammorbidendo alcune considerazioni, molto più spesso evitando di parlarne. Per Noury questa è l’altra faccia della medaglia, quella che tenta di coprire il lato oscuro dell’operazione. “Si vuole costruire l’immagine della “prima volta” in un paese del mondo arabo, un’idea affascinante, orientalista. Ma non ci troviamo di fronte a un’intenzione genuina, questi mondiali non si giocano in Qatar per dimostrare che anche i Paesi Arabi sono in grado di poterli organizzare. Si tratta soltanto di un’operazione di sport washing, dove la polvere viene messa sotto al tappeto”. Naturalmente per realizzare tutto questo ci sono voluti moltissimi soldi, ma non è certo questo il problema in Qatar, dove sono stati investititi “fondi infiniti per dare vita a un design del tutto diverso. Tra due mesi ci troveremo a guardare partite giocate dentro otto stadi dallo sviluppo avveniristico. E questo dovrebbe farci tornare in mente, dopo oltre trent’anni, anche quanto invece accadde per la ristrutturazione degli stadi in occasione di Italia ’90”.

Questo il lato scintillante della cartolina inviata dal Qatar, il cui risvolto mostra il sacrificio di milioni di lavoratori, e lo sfruttamento umano che ha permesso di raggiungere l’obiettivo. Ci si chiede allora quale dovrà essere il ruolo della stampa, dell’informazione in generale, duranti i prossimi Campionati del mondo. “Lo sport non è una bolla - è la riflessione di Noury - rivolta soltanto ai partecipanti, ai tifosi, alla stampa di settore e basta. I caratteri e la dimensione della violazione dei diritti umani di milioni di lavoratori è una questione internazionale, non fosse altro perché è grazie a loro che si vedrà un mondiale. Sarebbe dunque importante, in quel mese e mezzo, non affidarne la cronaca e il commento alle sole pagine dello sport, ma raccontare il Paese attraverso gli inviati sul posto, cogliere l’occasione per parlare di diritti umani, non solo legati allo sfruttamento del lavoro, con un occhio attento a quello che può succedere in quel mese e mezzo rispetto al diritto di protesta, alle manifestazioni pubbliche da parte di minoranze quotidianamente e da troppo tempo discriminate”.

E se il mondo dell’informazione possiede gli strumenti adeguati per denunciare violazioni di diritti, lo stesso può dirsi per gli attori protagonisti dell’evento, le 32 Nazionali di calcio che parteciperanno alla competizione. Sino ad oggi abbiamo registrato la presa di posizione soltanto di alcuni singoli, come l’ex capitano del Bayern Monaco e della Germania campione del mondo nel 2014 Philipp Lam, che ha deciso di non far parte della delegazione tedesca in Qatar motivando così la sua scelta: “I diritti umani devono avere un ruolo maggiore nell’assegnazione delle manifestazioni. Non dovrebbe succedere di nuovo in futuro. I diritti umani, le dimensioni del Paese... tutto questo, a quanto pare, non è stato preso in considerazione. E i giocatori non possono far finta di non saperlo”.

Riccardo Noury non può che condividere, aggiungendo come “prendere posizione pubblicamente con atti di coraggio, attraverso conferenze stampa, interviste, parlando non soltanto della partita, ma del Paese in cui si va a giocare, dovrebbe essere l’atteggiamento dei protagonisti. Da alcuni me lo aspetto, ci sono nazionali in cui militano calciatori dallo spiccato spirito critico, penso per esempio a Christian Eriksen, che dopo la brutta avventura personale dovrebbe far parte della spedizione danese… Ma saranno gesti isolati, non di squadra né di squadre. Gesti simbolici, di solidarietà. Poco altro".

C’è poi un ultimo paradosso su cui vuole soffermarsi l’autore: “Il paradosso è che l’Italia non sarà presente con la sua squadra ai mondiali, non essendosi qualificata, ma contribuirà al controllo e la sicurezza dell’intero evento con ben 560 militari, una decisione presa dal governo qualche mese fa, e che pone una serie di domande: quale sicurezza, in quali situazioni? A tutela di chi manifesterà per i propri diritti contro una polizia violenta e intollerante, o insieme a questo tipo di polizia?... Il fatto che l’Italia non sia qualificata vuol dire un interesse minore nel nostro Paese per quanto accadrà, e per Amnesty Italia meno possibilità di far emergere alcuni temi imprescindibili nella battaglia per i diritti di ogni essere umano nel mondo”.