Chi conosce e apprezza la scrittura di Nicola Lagioia, non soltanto quella capace di aggiudicarsi il più ambito riconoscimento letterario in Italia, il Premio Strega vinto nel 2015 con La ferocia, ma anche quella pubblicata in questi anni nelle pagine culturali di vari quotidiani (tradotta in comunicazione orale con la conduzione periodica di “Pagina 3”), troverà in questo suo nuovo libro completo appagamento.

La città dei vivi (Einaudi, pp. 459, euro 22) è infatti il risultato di una riuscita mescolanza tra generi, narrativo e saggistico, all’interno dei quali la penna dell’autore si muove con assoluta disinvoltura, raccontando la nuda cronaca, soffermandosi sulla descrizione di luoghi e personaggi, mettendo ancora una volta in gioco se stesso come accade ormai da vent’anni, vale a dire dal suo felice esordio nella storica collana Nichel dell’editore minimum fax, il geniale (sin dal titolo) Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi): lì già erano contenute le premesse e le promesse di un talento vero, potenzialità espresse e confermate nel corso del tempo; e un certo modo di vivere e raccontare la città di Roma già prendeva corpo.

Ne La città dei vivi la vicenda che emerge pagina dopo pagina ci riporta ai primi giorni del marzo 2016, quando Luca Varani venne ucciso all’età di 23 anni da due ragazzi poco più grandi di lui, Manuel Foffo e Marco Prato, quest’ultimo poi suicidatosi l’anno successivo nel carcere di Velletri. Molti ricorderanno questa storia, la cronaca nera parlò di omicidio efferato, di un corpo straziato dalle ferite e dal dolore inferto, di motivazioni difficili da trovare, se non l’abuso fino all’eccesso di alcol e cocaina da parte dei due assassini, figli di famiglie benestanti seppur diverse per estrazione sociale.    

Ed è qui che interviene lo sguardo di Lagioia, uno sguardo posto alla giusta distanza ma affatto distaccato, anzi talmente coinvolto da decidere già poche ore dopo la circolazione della notizia che era il caso di occuparsene, come fece, perché “nonostante gli elementi del racconto fossero ancora confusi, mi era sembrato di cogliere subito qualcosa di famigliare” (p.107).

Ciò che ipnotizza d’istinto lo scrittore si svelerà pian piano, anche a lui stesso, e procede di pari passo con la riflessione intorno al contesto,  quella immensa voragine tentacolare rappresentata dalla città di Roma, proprio in quel periodo alle prese con il “mondo di mezzo”, i Buzzi e  i Carminati, il malaffare e l’eversione oscura oltre che nera, lo sfruttamento degli ultimi e il sodalizio con palazzi e palazzinari.

L’analisi degli accadimenti precedenti e postumi la morte di Varani, e dell’allucinata esecuzione dell’atto in sé, divengono cardine di un ragionamento più profondo, che tenta di comprendere non soltanto come la città eterna sia divenuta la testimonianza di una dissoluzione in progress, quanto la trasformazione delle abitudini e dei vizi nell’avvenuto scarto generazionale, una generazione che a nemmeno trent’anni sembra non riuscire a dare valore ad alcuna esistenza, nemmeno la propria.

Di queste riflessioni, condivise con il lettore, Lagioia non ne fa materiale per emettere giudizi, né sulle vittime (come è arrivato Luca Varani nella stanza di Manuel Foffo?) né per i colpevoli, che quasi implorano ai giudici di spiegare loro la causa di tutto questo, le origini di un malessere interiore ed estraneo, come se il vuoto proveniente da fuori si incuneasse dentro inconsapevolmente, per poi restituire il tutto sotto forme violente e autodistruttive, quando ormai tutto è perduto.

La toponomastica della Roma di questo libro, i quartieri, le piazze e le strade, i vicoli, i bar, i locali notturni, sembrano quasi ammonirci, per avvertirci del fatto che in quei drammatici giorni di marzo, nel posto sbagliato, al momento sbagliato, in fondo potevamo esserci anche noi. Vittime o carnefici.