Pubblichiamo di seguito un estratto dal volume di Andrea Carraro, Da Roma a Roma, Ediesse 2009.

Arriviamo nel luogo convenuto alle undici. Il pulmino blu è già posizionato al margine di via Carolina, poco prima che la pineta sbocchi sulla zona abitata. Stiamo per scendere quando uno degli operatori ci viene incontro pregandoci di parcheggiare più lontano. L’unità di strada Magliana 80 oggi è composta da tre persone: un medico, uno psicologo e un operatore volontario ex tossico. "Se vedono altre macchine intorno possono insospettirsi", ci spiega quest’ultimo, "pensano subito alla polizia. E poi spesso arrivano che stanno proprio a rota e allora magari frenano sgommando e se non trovano la strada libera è un guaio, vanno a sbattere dove capita… È una precauzione per voi, capite?…".

Carlo, l’amico giornalista che mi accompagna, comincia a parlare con il medico, Cesilio, un ragazzo calvo che prima lavorava al SerT di Ostia, a pochi isolati da qui. Io sulle prime ascolto distratto. Sono ancora sotto l’impressione della scena appena descritta. La mattinata che ci aspetta non si annuncia come una passeggiata sotto il sole. L’istinto è andar via subito. Ma già cominciano ad arrivare i primi gruppetti di tossici che gettano le siringhe usate in un secchio giallo posto sul marciapiede recante la scritta "Rifiuti ospedalieri trattati". I tre operatori li accolgono con sobria cordialità, gli danno le siringhe nel numero richiesto e accessori quali garze, kleenex inzuppati di spirito o di acqua ossigenata, raccoglitori di siringhe usate eccetera. Poi gli allungano un foglio dove sono tenuti a scrivere il nome, il numero di siringhe fornite e quelle rese. La maggior parte si va a infrattare dietro un cespuglio di rovi poco distante, pochi riprendono la macchina per bucarsi altrove. "Ma non capita mai che chiedano le siringhe e poi non le restituiscano?", chiediamo al medico. "Altroché se capita! Almeno capitava". Entra nel pulmino e ne riesce subito dopo con un una tabella che ci mostra tutto orgoglioso. "Vedete, siamo partiti due anni fa con una percentuale del 94 per cento di siringhe non restituite. Un valore altissimo. E oggi, guardate, lo scorso mese appena il 4 per cento".

Ci complimentiamo in un modo un po’ goffo, quasi lo stessimo prendendo per i fondelli. Lui sorride e ci dice che quel risultato è assai meno trascurabile di quanto non sembri a prima vista. A parte l’utile servizio sociale di favorire lo smantellamento urbano delle siringhe usate, c’è un altro aspetto, assai più importante, che va considerato. E cioè che spesso le unità di strada rappresentano, per i tossici, l’unico veicolo di comunicazione non conflittuale con il resto della società. "Noi mettiamo subito le cose in chiaro con loro. Se si rivolgono alla nostra struttura debbono sottostare alle regole che vigono qui. Prima regola, restituire le siringhe che gli forniamo. E poi, poca confidenza. Non facciamo gli amiconi, non gli offriamo sigarette o caffè. Rapporti di cordialità e di massimo rispetto, certo, ma niente di più. Se abbassassimo la guardia, immediatamente entreremmo a far parte del loro mondo, e verrebbe meno quella distinzione dei ruoli che è il principio su cui si basa tutto il nostro lavoro, e che ci permette di rappresentare ai loro occhi una zona franca, un punto di riferimento e un eventuale punto di fuga".

Continuano ad affluire tossici come in un supermercato. Difficile trarne un identikit. Ce n’è di tutti i tipi. Dal ragazzetto con tutta la famiglia che lo aspetta in macchina, nonna compresa, sul lato opposto della strada, al quarantacinquenne meccanico in tuta da lavoro, al figlio di papà di Casal Palocco, che scende da un’auto di grossa cilindrata e si presenta con un’aria di degnazione e poi si va a bucare altrove, perché, ci spiega il medico, conserva ancora la nozione della propria superiorità sociale: "Ma già tende a omologarsi, fra qualche settimana o qualche mese, anche lui comincerà a comportarsi e perfino a vestirsi come loro e a bucarsi dietro la siepe". Poi è la volta di una ragazza di colore, Esther, accompagnata dal pappone su una Thema verde metallizzato, un mingherlino slavato e mezzo calvo con occhiali scuri che gli nascondono gli occhi. L’uomo si tiene parecchio lontano dal pulmino, saluta la ragazza con un bacetto sulla guancia e aspetta di vederla arrivare a destinazione come un papà premuroso che accompagna la figlioletta a scuola.

Tutti i clienti ci guardano con aria un poco diffidente, sospettosa. Ma non è soltanto questo a rendermi inquieto. Il fatto è che da quando siamo arrivati provo la sgradevolissima sensazione di navigare in un voyeurismo compiaciuto, morboso, come quando al cinema assisti a stupri e sbudellamenti seduto su una comoda poltrona. Nei gesti dei tossici e degli operatori – in quelli ansiosi dei primi e in quelli apparentemente neutri, asettici ed efficienti dei secondi – sembrano convivere in una perfetta sintesi la tragedia e la quotidianità, al punto da rendere impensabile un mondo diverso da questo. Accentua questa impressione l’isolamento in cui siamo calati. Qui di gente normale ne passa davvero poca: tanto che lo stesso Cesilio è quasi trasecolato vedendo a un tratto passare una ragazzina con un cane al guinzaglio. "La gente ci è ostile. Anche la polizia. Qualcuno ci ha perfino accusato di alimentare il fenomeno".

Sentiamo sopraggiungere un’ape tutta sferragliante sull’altro lato della strada. "Scusate un attimo", ci fa Cesilio con un sorrisetto tirato, "questi sono un po’ difficili, vi consiglio di…". Non riesce a concludere la frase, ché i passeggeri dell’Ape sono già presso il pulmino. Si tratta di due fratelli sui vent’anni e una ragazzina, la moglie del più giovane. Tutti e tre sono piuttosto malridotti, specie Mimmo, il più estroso ed eccitato del gruppo, che si annuncia con un Daje Roma! e un sonoro fischio da pecoraro. Poi stringe la mano al medico, che gli porge la sua con una certa riluttanza. Indossa jeans tutti sforacchiati e un camicione a righe lacero e, annodata attorno al collo, una vistosa sciarpa giallorossa. Dietro le spalle, uno zainetto, pure giallorosso. "Allora, tutto a posto?", fa al medico accostandoglisi sempre più sino ad alitargli in faccia. "Niente sigarette, eh?… Niente caffè… Me dai la mano che pare che ci ho la lebbra…". Ride con un’aria spavalda, di sfida, mettendo in mostra uno scempio di denti guasti. Si rivolge agli altri due: "Ci avemo la lebbra…". 

Cesilio si prova a quietarlo: "No, Mimmo, no, così non va bene, che è questo atteggiamento oggi?".

"Che atteggiamento, ma de che parla questo?".

"Okay, okay, avete riportato le siringhe?…".

"Ce l’avemo, ce l’avemo…", fa Mimmo, consentendo pigramente con il capo e frattanto si toglie di dosso lo zainetto e comincia frugarvi dentro e a tirare fuori della roba che poggia sul cofano del pulmino: due panini, un barattolo vuoto, un paio di cucchiaini di metallo tutti anneriti.

"Nun ce stanno più…". Si rivolge al fratello: "Ahò, a Albe’, ’ndo’ cazzo l’hai messe?…".

"L’ho già buttate ner secchio".

"E dimmelo, no?… Me fai tira’ fòri tutto, li mortacci tua…".

Il medico lancia un’occhiata interrogativa ai suoi colleghi che confermano. Mimmo è l’ultimo a fare rifornimento, mentre Stecco e la moglie ragazzina si sono già incamminati verso il cespuglione di rovi.

"Damme una siringa, l’ovatta… Sì, così, bagna, bagna, de più, de più, vòi risparmbia’?… Eppoi un guanto…".

"Un guanto?".

"Sì, sì, hai capito, hai capito, un guanto, damme un guanto".

Interviene il medico: "Il guanto di gomma non è previsto. La lista la conosci: siringhe, preservativi, cotone idrofilo" .

"Sì, sì, lo so, lo so… Me serve un guanto, avanti, non la fate tanto lunga, che ve frega…".

"Ma a che ti serve?".

"So’ cazzi mia!…".

Il medico fa cenno di assecondarlo. Presa tutta la roba, Mimmo si avvia verso la fratta, ma si arresta quasi subito e chiede al medico di tirargli su la manica della camicia e di versargli dello spirito:

"Puoi farlo da solo".

"Ci ho le mano occupate, nun lo vedi?…".

Il medico lo asseconda ancora. Mimmo lo osserva canzonatorio, mentre quello gli tira su con due dita le maniche sudice e unte della camicia.

"Te fa schifo, eh?… Te cachi sotto…".

"Non va bene, Mimmo, oggi non va bene proprio. La prossima volta bisogna che facciamo un discorsetto noi due".

"Come no?, se dovemo di’ ’na cifra de cose…".

Finalmente è pronto per andare. Prima di muoversi tuttavia comincia a guardarci, affettando stupore come se si fosse accorto di noi solo in quel momento.

"E ’sti due?", dice.

"Sono amici", gli fa il medico, "non ti preoccupare, vai, vai pure…".

"E chi se preoccupa… Però si so’ veramente amici, dateje ’na spada pure a loro… Così devono torna’…".

Sorridiamo imbarazzati. Mimmo corre verso la fratta, agitando con una mano la "spada" e con l’altra lo sciarpone giallorosso e gridando a pieni polmoni un motto da stadio. Mentre i tre si bucano dietro la siepe, il medico ci parla a lungo di Mimmo, ch’è malato di Aids da due anni e peggiora di salute di giorno in giorno e tuttavia continua a farsi come e più di prima, non avendo più niente da perdere, e per lo stesso motivo è assai difficile contenerlo nel comportamento. Il fratello invece è sieropositivo e tempo fa gli ha chiesto di informarne la moglie poiché lui non ne aveva il coraggio. "Ci siamo rifiutati, naturalmente. Non sta a noi prendere decisioni del genere". Quando tornano, Mimmo ha un braccio tutto insanguinato. Gli altri due gettano diligentemente le siringhe usate nel secchio giallo. Mimmo esita.

"Perché cazzo dovete mettelo laggiù!", dice dopo un po’, indicando il secchio posto a tre o quattro metri di distanza. Lo pregano di non fare storie. "’Sto cazzo!… Lo vojo qua… È ’na questione de principio…".

"Adesso basta!", esplode il fratello rabbioso. "Va’ a butta’ quella spada, stronzo!". 

Lui ubbidisce, guardandolo impaurito. Soltanto in questo momento sono emersi i reali rapporti di forza fra i due. "Mimmo fa solo teatro", ci spiegheranno più tardi, "Stecco invece è violento e imprevedibile e il fratello lo teme. Un giorno l’ha picchiato qui stesso, dopo il buco. Se non intervenivamo era capace d’ammazzarlo. Pareva impazzito". A un certo punto Mimmo comincia a tossire forte, poi strabuzza gli occhi e per un paio di minuti se ne sta imbambolato, dondolando sulle anche e fissando il vuoto innanzi a sé come un demente. Domandiamo preoccupati se si sente male.

"Un po’ sì, un po’ finge…", ci spiega Cesilio.

"No, finge e basta!", dice Stecco. "Forza, a Mimmo, che famo tardi, datte ’na mossa…".

Quando Mimmo si riprende, prima di congedarsi, pretende di dare la mano a tutti. Si è pulito e disinfettato, pure mentre stringo quella mano gelida e rasposa non riesco a censurare un senso di angoscia e quasi di terrore. Come l’Ape smarmittata e strombazzante si dilegua alla svolta della via, chiediamo al medico se quella stretta di mano può comportare dei rischi. Il medico ci rassicura, ripetendoci cose che sappiamo entrambi benissimo, e che magari abbiamo anche detto a nostra volta in qualche occasione, biasimando le forme di ghettizzazione verso i malati di Aids.