Giunto alla sua ventesima edizione, il FestivalFilosofia di Modena, Sassuolo e Carpi 2020 ha voluto assumere come spunto l'ultimo saggio di Remo Bodei, scomparso nel novembre di un anno fa e fin dall'inizio presidente del Comitato Scientifico, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza artificiale. Nonostante tutte le misure anti-covid previste e imposte dalle nuove regole di distanziamento, anche quest’anno, così difficile e drammatico, il FestivalFilosofia ha dimostrato che in fondo quel progetto socratico di portare interrogativi e teorie filosofiche nelle piazze continua ad avere successo, soprattutto in un pubblico eterogeneo, e in parte molto giovane. Filosofi, scienziati, pensatori hanno accettato la sfida delle piazze, come da 20 anni accade, e senza alcun timore si sono prestati a parlare di filosofia. La sfida socratica è anche quella della conoscenza, poiché ogni interrogarsi filosofico è una domanda sulla conoscenza, sulla sua potenza e sui suoi limiti. Di fatto, la piazza, ma anche il teatro, e il museo, diventano così per tre giorni luoghi del discorso filosofico e provocazioni sulla conoscenza, sul loro senso, individuale e collettivo. La sfida, filosofica e cognitiva, di quest’anno era appunto quella posta dalla macchina, con una riflessione, sollecitata dal filosofo Remo Bodei, sul rapporto di supremazia e sfruttamento che l'uomo ha sempre instaurato con l'altro, considerato non umano, dagli schiavi ai robot.

Carlo Sini, filosofo teoretico, intanto ne ha colto l’origine dell’etimo nel termine greco “mechané”. “La radice indoeuropea del termine”, prosegue Sini, “significa potere, potenza, capacità, ed anche mezzo, strumento, via di scampo, dunque nulla di meccanico in senso moderno”. Nella versione latina, “machina è sinonimo di congegno, cum ingenium, con ingegno, con creatività e visione dei fini. Viene da genius, colui che crea, il genitore”. Il mechanicus latino, insomma, è l’ingegnere, l’architetto, il macchinista, l’artefice di trame, ma anche il Catilina di Cicerone. E infine c’è un ultimo significato che, dice Sini, “ci stupisce: machina vuol dire anche il palco su cui si vendono gli schiavi, perché gli schiavi secondo gli antichi sono macchine viventi”. Sini cita il capitolo 13 del Primo Libro del Capitale di Marx, che ha per titolo “macchine e grande industria”, purtroppo “dimenticato”. Cosa fa Marx? “Intanto il capitale non usa la macchina per alleviare la fatica degli operai, fa tutt’altro, anche se nella vita corrente ciò può accadere. Cosa fa il capitalismo moderno a proposito della macchina? La distingue dalla prima macchina, quella strumentale, ovvero la forza propulsiva dell’uomo. Marx la considera la macchina artigiana. La rivoluzione della macchina industriale s’impadronisce di quella parte dello strumento artigiano azionato dall’uomo, utilizzando la natura, la scienza della natura, la ricerca, mentre l’uomo diventa solo spettatore. L’uomo sorveglia la macchina e la corregge”.

La tesi Marx, prosegue Sini, è che “la grande industria incorpora le gigantesche forze naturali e la stessa scienza che spiega le forze della natura. Corpi naturali e corpi artificiali, fatti ad arte per muoversi da soli, automaticamente. Ma al centro c’è il grande problema sempre saltato: uomo che è? Marx segnala una cosa fondamentale: non esiste una storia della formazione degli organi produttivi dell’uomo sociale, delle macchine, della evoluzione materiale del lavoro. Gli organi produttivi dell’uomo sociale sono la base materiale stessa di qualunque organizzazione della società. E aggiunge che bisogna considerare che, come dice Vico, nella citazione di Marx, la storia umana si distingue dalla storia naturale perché noi abbiamo fatto la prima ma non la seconda”. Così si deduce che corpo naturale e corpo sociale sono profondamente legati, e così il sociale s’incarna nel biologico. “Marx ed Engels furono i primi ad avvertire questo legame quando indagarono sulle patologie degli operai di Manchester. Ma sono il linguaggio e le parole che indicano il cammino di comprensione e di liberazione degli uomini rispetto alla vita e alla morte, a Eros e Thanatos, che riepilogano il vissuto su questa Terra. La parola mi rende cosciente, perché così, come diceva Kant, noi umani siamo usciti dal paradiso terrestre della stupidità animale”.

Carlo Sini a questo punto è chiarissimo nell’affrontare un tema filosoficamente difficile, messo da decenni in crisi da una visione distorta del rapporto uomo-macchina-mondo: “affrontando questo destino siamo andati al di là del destino dell’animale, e dunque il dato naturale nell’uomo è sempre epigenetico, sociale. L’umano è una costruzione, non solo della conoscenza umana, ma del lavoro umano”. Si costruisce questa identità umana “per tenere insieme la comunità che sopporta e supporta l’umanità, in una globalità che ci insegna a stare nella condizione umana e a promuoverla senza fine”. Questo si dovrebbe insegnare a scuola e nelle università, afferma infine Sini. “Si crede davvero di insegnare perché si insegnano i significati scritti nel manualetto? No, è sbagliato. Non esiste alcuna disciplina che esaurirà mai la complessità del sapere e della stessa condizione umana, dei vissuti. Ecco perché è necessaria la transdisciplinarietà, che tiene assieme le conoscenze, tutte. Insomma, nelle nostre scuole dovremmo smettere l’abitudine di trasmettere nozioni, ma cercare di far scoprire agli studenti la complessità del sapere, e la sua bellezza. Ma è una rivoluzione enorme e tremenda”.

Pino Salerno è responsabile Ufficio studi Flc-Cgil