La decisione della Whirlpool di fermare la procedura di licenziamento collettivo e di portare avanti la produzione di lavatrici a Napoli non basta a far dormire sonni tranquilli ai dipendenti dello stabilimento di via Argine. Su di essi incombeva la chiusura della fabbrica, cosa prevista per il 1° novembre, con la prospettiva di essere mandati tutti a spasso. Ora, la mossa della multinazionale americana offre la possibilità di aprire un nuovo tavolo negoziale sul cui esito è però opportuno, al momento, non sbilanciarsi. C’è in ballo la sorte di oltre quattrocento persone che ora come ora possono solo tener duro e che continuano, comunque, a sentire minacciate le loro esistenze di lavoratori. “Non è più sostenibile mantenere la fabbrica napoletana, non è più competitivo rimanere qui”, erano le motivazioni della paventata chiusura che sapeva tanto di delocalizzazione verso Paesi nei quali la forza lavoro costa meno. Dove, però, non si sa.

“Finora nulla faceva presagire questa svolta nei rapporti con la dirigenza che sono sempre stati buoni”, spiega Raffaele Romano, delegato Fiom della fabbrica campana, il quale aggiunge che un tale licenziamento di massa non farebbe altro che consegnare “nuove braccia alla camorra”. Aggiunge Pina Scala, che lavora alla Whirlpool da 16 anni: “Un uomo di cinquant’anni che si è formato qua, cosa potrà mai fare una volta licenziato? Forse il parcheggiatore abusivo. A quell’età sei troppo vecchio per trovare un nuovo lavoro e troppo giovane per andare in pensione”. Dalle loro parole e da quelle di altri dipendenti dell’azienda traspare uno stupore che non si converte immediatamente in ottimismo per i nuovi sviluppi della vicenda.

La minaccia di chiusura ha costituito un precedente e tutti sentono di dover lottare. In altre parole permane un’inquietudine che potrà essere superata solo con l’acquisizione di garanzie concrete di mantenimento della fabbrica. Forse. Fino a quel momento la prospettiva è quella di impegnarsi per la conservazione dei posti di lavoro e di un soggetto molto importante per Napoli che, secondo Cgil, Cisl e Uil, negli ultimi dieci anni ha perso circa il 40 per cento della capacità produttiva industriale.

Raffaele Romano e Pina Scala fanno notare che lo stabilimento di via Argine è da tempo un modello di produttività ed efficienza, all’interno della Whirlpool. Una fabbrica che nei tempi migliori è stata capace di produrre circa 3.700 pezzi al giorno, divenuti oggi solo 2 mila (circa 275 mila all’anno) per difficoltà di mercato, quindi per problemi non imputabili a essa. Il sito campano svolge infatti la propria attività al di sotto della normale capacità produttiva sia a causa del calo internazionale della domanda di lavatrici di elevato livello qualitativo, sia per una situazione macroeconomica sfavorevole.

Aspetti non previsti il 25 ottobre dell’anno scorso, all’epoca della sottoscrizione del piano industriale. Così come nessuno a via Argine prevedeva la decisione dei vertici dell’azienda, soprattutto dopo che quest’ultima aveva firmato l’accordo per il mantenimento e il rilancio della sede di Napoli, col governo e con i sindacati. Il ritiro della procedura di licenziamento c’è stato, ma questo non ha impedito ai dipendenti della multinazionale statunitense di scendere in piazza e di essere protagonisti dello sciopero generale di quattro ore dell’industria e del terziario dell’Area metropolitana di Napoli, tenutosi lo scorso 31 ottobre, con oltre 5 mila manifestanti.

Sentito sull’argomento, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha parlato di una città solidale intenta a stringersi intorno ai lavoratori della Whirlpool, e precisato che il prossimo 7 novembre sarà a Roma per conferire col primo ministro Conte sulla vicenda e su una vertenza che riguarda un’intera città. Il capoluogo campano ha fatto effettivamente quadrato intorno ai dipendenti dell’azienda. Alla notizia della chiusura e dei licenziamenti, diversi negozianti di elettrodomestici hanno esposto un cartello con su scritto “non vendiamo elettrodomestici Whirlpool”.

Spiega la segretaria nazionale Fiom Barbara Tibaldi: “I lavoratori della Whirlpool hanno raggiunto un obiettivo mai toccato prima. Hanno portato una multinazionale, per di più americana, a ritirare una procedura che aveva avviato. Ora il punto è partire da qua e non tornare più indietro”. A suo giudizio occorre portare qui nuove produzioni, “altrimenti fra 6 mesi ci spiegheranno che non c’è lavoro”. Insomma, ora inizia la pressione e nella trattativa occorrerà vedere se il governo, “che si è candidato a guidarla, sarà in grado di mantenere un atteggiamento equilibrato”. Anche perché, fa notare Tibaldi, potrebbero rispuntare “vecchie ipotesi come Prs: non abbiamo lottato tanto, per ottenere imbrogli”.

Le fa eco Massimiliano Guglielmi, segretario della Fiom Campania: “È stato ottenuto un risultato importante e inedito rispetto alle trattative che avvengono normalmente con le multinazionali. La trattativa si riapre, ma per noi la prospettiva industriale non può che essere Napoli all’interno del perimetro Whirlpool nazionale, quindi continuare a produrre lavatrici”.

La Whirlpool deve restare a Napoli” e “Napoli non molla”, sono le parole d’ordine di questa vertenza che sollecita l’esecutivo a pretendere dalla multinazionale americana il rispetto degli accordi presi e che, allargando l’inquadratura, chiede un piano concreto di sviluppo per il capoluogo campano e per il Mezzogiorno e preme per un intervento che non sia basato sul puro assistenzialismo. Ma tornando alla vicenda esposta in queste righe c’è da chiedersi quanto ottimismo sia lecito dopo i suoi ultimi sviluppi.

Una risposta viene data da Walter Schiavella, segretario generale Cgil Napoli, secondo il quale “l’ottimismo serve sempre sì, se unito alla ragione. E la ragione – fa notare – ci dice che ancora non è stato raggiunto nulla di concreto circa le prospettive future dell’azienda”. Ora non si può far altro che “affrontare il nuovo tavolo negoziale forti di una posizione chiara che vuole la permanenza della Whirlpool a Napoli a produrre lavatrici”.