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Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Attualità del n.1 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale da questo link. Qui invece il link alla rubrica dedicata alla stessa Rivista e ospitata su Rassegna
Per lungo tempo il tema del welfare contrattuale ha attraversato il dibattito interno alla Cgil alimentando sospetti, reticenze, contraddizioni che non hanno consentito una riflessione approfondita sulla natura del fenomeno e sulle sue possibili evoluzioni, facendo cosi accumulare alla confederazione un consistente ritardo nell’elaborazione di una propria visione autonoma, tale da evitare l’andare a rimorchio delle altrui proposte.
Oggi che il tema del welfare contrattuale è diventato centrale nel dibattito nazionale, tanto nelle azioni del governo, quanto nelle posizioni e nelle proposte dei soggetti di rappresentanza, innanzitutto di parte datoriale, si impone la necessità di recuperare questo ritardo, soprattutto culturale, superando il luogo comune che esso rappresenti un’esperienza lontana dalla nostra tradizione.
Lo sviluppo del welfare contrattuale deve avvenire contestualmente al rafforzamento del welfare pubblico e non come grimaldello per la sua demolizione, pena l’impossibilità di rendere inclusive le tutele universali, con l’inevitabile incremento delle disuguaglianze sociali. Ecco perché occorre un progetto generale e condiviso, alternativo alla logica del “fai da te” e, soprattutto, del “fai per te”, che assuma la consapevolezza che la difesa del sistema pubblico si può fare anche orientando la gamba integrativa verso contenuti coerenti con tale obiettivo.
Un tema che riguarda tutti, vista la grande diffusione ottenuta a oggi dai fondi contrattuali, soprattutto nel settore sanitario, quello più colpito dai tagli della finanza pubblica. Oggi oltre 5 milioni di persone (circa il 70% dei lavoratori e il 30% dei “familiari”) sono interessati ai fondi sanitari, ma altre stime ci parlano di oltre 10 milioni di aderenti a fondi collettivi (non solo di origine contrattuale).
A fronte di questa forte spinta verso la loro diffusione, affermarne la compatibilità con la difesa e la qualificazione del sistema pubblico significa provare a difenderne la natura autenticamente integrativa. Da qui la necessità di realizzare una “regia” nel governo della missione dei fondi, proprio in relazione all’estrema differenziazione, soprattutto qualitativa, del ruolo svolto da ognuno di essi. Sul welfare aziendale si sta sviluppando un business: con il proliferare di offerte “chiavi in mano” alle imprese e quindi ai dipendenti, un vero e proprio supermercato del benefit.
Precisare quale debba essere il perimetro del welfare contrattuale è d’obbligo, dal momento che al suo sostegno vengono destinate risorse pubbliche derivanti dalla fiscalità generale, attraverso la detassazione. E in nessun caso, tuttavia, il welfare contrattuale può diventare un’alternativa al salario. Bisogna inoltre considerare l’intreccio tra contrattazione sociale e welfare contrattuale. La contrattazione sociale si occupa di trovare soluzioni a problemi che interessano tutti i cittadini, quindi anche i lavoratori. Invece le soluzioni confinate nell’ambito aziendale si rivelano più deboli, limitate e tutte a carico dell’impresa e dei lavoratori.
Quando, grazie alla contrattazione sociale, si collega il welfare dell’azienda di un determinato territorio con il welfare locale, coinvolgendo il Comune o la Asl, si possono produrre vantaggi reciproci, per i lavoratori interessati e per l’intera comunità. Un diffuso sistema di welfare contrattuale pone complessi problemi di gestione, sia per l’efficacia e la coerenza della missione, che per la solidità finanziaria del sistema. Per lungo tempo, invece, ci si è mossi in direzione contraria, riproducendo per via contrattuale una galassia di fondi, con il risultato di aver dovuto affrontare in molti casi il problema della loro sopravvivenza invece che del pieno esercizio della funzione.
Il tema dell’architettura del sistema ci pone, quindi, di fronte al tema degli accorpamenti settoriali, rinunciando all’esasperato settorialismo. La sfida della governance è, anche, quella della trasparenza e della coerenza con gli scopi definiti dalla contrattazione. Ormai è sempre più evidente, infatti, che la maggior parte di enti che a vario titolo svolgono, direttamente o indirettamente, funzioni pubbliche o sussidiarie e in virtù di ciò incrociano la spesa pubblica, saranno sempre più soggette alla vigilanza, come si è già visto con la circolare dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) destinata ai fondi interprofessionali. A maggior ragione, quindi, autonomia e trasparenza debbono rappresentare la bussola della governance, realizzando con nettezza la separazione tra gestione amministrativa e ruolo di rappresentanza politica delle parti sociali, rendendo formalmente incompatibili i due ruoli.
Per quanto riguarda, infine, il decreto interministeriale dello scorso 25 marzo sulla detassazione in materia di premi di risultato e partecipazione agli utili dell’impresa, entrato in vigore il 14 maggio, esso costituisce un utile strumento per sviluppare esperienze in materia di welfare contrattuale. Vi sono contenuti importanti elementi di novità e opportunità, che dovranno essere tradotti nello sviluppo della contrattazione aziendale e territoriale.
Per questo il sindacato deve dotarsi di un progetto unitario e autonomo di welfare contrattuale e per fare questo occorre che la riflessione nella Cgil si sviluppi senza remore, ma con l’ambizione di fare di una componente già presente nella storia e nella tradizione confederale, terreno di inclusione, in un mondo del lavoro profondamente diviso, nel quale lavoro e cittadinanza sociale rischiano di non essere mai stati così distanti.
Franco Martini è segretario confederale della Cgil
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