È di pochi giorni fa (21 marzo) la proposta della Commissione Ue di una web tax europea. Tale imposta è per ora ipotizzata come temporanea, in attesa di una soluzione complessiva al problema dello spostamento di basi imponibili e alle pratiche elusive messe in atto dalle grandi multinazionali (del web, ma non solo), approfittando del fatto che per operare nel mercato unico sia necessaria una sola sede nel continente.

Un problema che potrà probabilmente trovare una soluzione più stabile se e quando sarà approvata la condivisione continentale delle basi imponibili consolidate (il famoso progetto Ccctb, Common consolidated corporate tax base), ovvero quando i ricavi di un’impresa che agisce su tutto il territorio europeo saranno calcolati con regole comuni e poi tassati secondo le aliquote che ogni Paese vorrà liberamente applicare; in realtà non sarebbe così assurdo pensare a un’unica aliquota, peraltro assai sensata in un mercato unico, ma già sarebbe un grande passo avanti rendere inutile la pratica di scegliere in quale Paese imputare ricavi, costi, brevetti, solo a ragione della convenienza fiscale.

Per ora è stata approvata solo una proposta-tampone provvisoria, ma è già pronto il progetto di una web tax organica. Qualora venisse approvata (e i Paesi che qualcuno definisce paradisi fiscali nell’Ue, come Olanda, Lussemburgo e Irlanda, promettono battaglia) come funzionerebbe? Agirebbe innanzitutto sul concetto, fondamentale per il fisco, di “stabile organizzazione”. Concetto che ha subìto numerose modifiche e interpretazioni non sempre univoche, specie con l’avvento delle imprese digitali, le quali, secondo i vecchi criteri, risultano risiedere esclusivamente in un luogo, pur facendo affari, ed essendo presenti stabilmente, in tutti i Paesi grazie agli strumenti informatici che azzerano tempi e distanze.

La proposta di web tax su cui sta lavorando l’Unione europea prevede che debba essere individuata la “presenza digitale tassabile” al verificarsi di alcune condizioni: almeno 7 milioni di euro di ricavi annuali in uno Stato membro, se ha più di 100 mila utenti registrati in uno Stato, oppure se ha più di 3 mila contratti per servizi digitali a utenti business. La soluzione temporanea, invece, traccia per ora un confine in cui rientrano solo le imprese digitali molto grandi (le cosiddette over the top; il commissario europeo per gli affari economici e monetari, Pierre Moscovici, ha dichiarato che la norma è tarata per essere applicata a circa 120-150 grandissime imprese europee, americane e cinesi che operano in territorio Ue), e ha inserito a questo fine due limiti relativi ai ricavi complessivi globali (750 milioni di euro) e continentali (50 milioni di euro).

Nel caso in cui un’impresa rientri in questi parametri dovrà pagare il 3% sui ricavi da vendita di spazi pubblicitari, cessione di dati e attività di intermediazione tra utenti e business. La norma quindi ricalca in parte lo schema della web tax approvata (ma ancora non operativa) nell'ultima legge di bilancio dal Parlamento italiano, inserendo una – positiva – esenzione per le imprese piccole e tenendo fuori, per ora, l’e-commerce. Dai primi calcoli, le entrate derivanti da questa imposta sarebbero attorno ai 5 miliardi di euro.

È certamente una necessità che l’Unione europea si doti di una normativa fiscale uniforme innanzitutto per quei servizi – il web ne è un esempio paradigmatico – che prescindono dai confini tra Stati. Questa web tax non è certo perfetta: tassa i ricavi e non i redditi, è un’imposta ulteriore,  in aggiunta a quelle che normalmente queste imprese già pagano (in che misura le paghino davvero in relazione ai loro profitti reali è un altro discorso) e potrebbe, come si dice sempre in questi casi, disincentivare la crescita delle imprese. Tuttavia, le alternative alla cornice europea sono ancora peggiori rispetto a questa, temporanea e imperfetta.

Non far nulla vorrebbe dire rinunciare a entrate cospicue e soprattutto dovute e, quindi, lasciare la ricerca di una soluzione unilaterale ai singoli Stati membri (cosa che stava succedendo in Italia, Slovacchia e Ungheria), rinunciando così al potere contrattuale di un’area che è ancora il più grande mercato mondiale, frammentando il sistema e rendendolo più complesso e, dunque, più eludibile da pianificazioni fiscali aggressive.

Cristian Perniciano è responsabile Politiche fiscali della Cgil nazionale