Il Sert offre servizi di frontiera essenziali che risentono fortemente dei cambiamenti politici e della crisi in atto”, così Lorena Splendori, segretaria nazionale Fp Cgil Sanità, e responsabile dell’area dipendenze del sindacato, sintetizza il motivo che ha spinto il suo gruppo di lavoro a svolgere la prima ricerca nazionale sui Servizi per le dipendenze e le condizioni di lavoro al loro interno (Sert: lo stato di salute degli operatori e del sistema dei servizi per le dipendenze).

Due i questionari somministrati, uno ai responsabili dei Servizi, l’altro agli operatori, in 159 Sert di ben 16 regioni. “La scarsità di risorse e mezzi, la crescente precarizzazione del personale, unita a un aumento e a una differenziazione maggiore dell’utenza, ha reso questi luoghi delle vere ‘cenerentole’ nell’ambito dei servizi alla salute, stigmatizzati a livello sociale proprio come le persone che ad essi si rivolgono”, continua la sindacalista.

Che aggiunge: “A tutto questo va sommato quanto accaduto con le ultime leggi, come la cosiddetta Giovanardi che ha penalizzato il consumo di droghe leggere, equiparandole a quelle pesanti, e ha di fatto aumentato il lavoro e le funzioni dei Sert senza però incrementarne il personale. Ogni volta che cambia una legge cambia tutto e questo rende vulnerabile un settore già di per sé così delicato”.

A leggere i dati, i motivi di criticità evidenziati dalla ricerca sono allarmanti per il futuro oltre che per il presente. A fronte di una maggiore richiesta di prestazioni per nuove forme di dipendenza come quelle da “giochi” o alimentari, di una mole di lavoro accresciuta per il rilascio di certificazioni di non tossicodipendenza dei lavoratori a rischio, certificazioni per patenti, adozioni internazionali, porto d’armi eccetera – e con un aumento degli utenti del 23 per cento tra il 2005 e il 2010 – l’organico è cresciuto di appena il 7 per cento.

Inoltre, a causa del blocco del turn over l’età media ha raggiunto i 48 anni e il 33 per cento degli operatori ha un contratto di lavoro atipico, percentuale che sale al 48 tra i neoassunti. Va sottolineato che il personale dei Sert è altamente qualificato (più della metà laureato, il 24 per cento con una laurea triennale) e professionalizzato; generalmente arriva al lavoro di cura attraverso “motivazioni autodirette”, ovvero perché spinto dall’utilità sociale del servizio e da una passione professionale.

E anche quel 28 per cento di operatori che arriva “per caso” a lavorare nei Sert poi ci resta perché apprezza, a prescindere dalle difficoltà, l’organizzazione e il clima lavorativo. È proprio il lavoro di equipe, infatti, che tiene e, anzi, mantiene il servizio a livelli adeguati. “Il problema però – spiega la Splendori – è che a causa della scarsità di risorse non si possono riconoscere adeguatamente le performance e le professionalità, e questo senso di abbandono provoca un profondo disagio tra il personale: basti pensare che oltre il 28 per cento degli operatori intervistati manifestano demotivazione”.

Scarsità di risorse che è spesso evidente anche sullo stato di salute dei locali che ospitano i servizi. “L’ambiente circostante è importante non solo per gli utenti, ma anche per chi ci lavora; alcune strutture sono fatiscenti, con poche stanze e bagni in comune per tutti, donne, uomini, personale e utenza. Le finestre e le porte sono vecchie e rotte, i muri scrostati, i pavimenti rigati”, sottolinea uno dei tanti lavoratori che hanno preso parte alla ricerca e che rimarrà anonimo come i suoi colleghi perché, come dice, “il nostro è un lavoro di squadra e nessuno deve emergere”.

“Alcuni Sert – prosegue l’uomo, che ha lavorato nei diversi Sert abruzzesi – hanno solo due operatori, altri più di 40. Se si considera che alcuni edifici sono opprimenti e mal ridotti, con sale d’attesa sovraffollate e carichi di lavoro esagerati, si capisce come alcuni lavoratori siano veramente disperati”. Spesso gli operatori ricevono minacce, anche percosse, e la cattiva organizzazione di alcuni Sert crea loro ansia, ma nonostante tutto “riescono a essere molto attenti all’aspetto umano e delicato di questo lavoro”.

“I tossicodipendenti – dice un altro operatore, con 23 anni di servizi alla spalle nei Sert della Toscana – vengono considerati marginali, soprattutto in un periodo di crisi come questo, e i servizi loro dedicati subiscono forti tagli senza suscitare indignazione. Inoltre c’è un tentativo di ridurre la loro cura nell’ambito della salute mentale, sempre nell’ottica del risparmio, senza tener conto della specificità di queste persone che non rispettano il ruolo paziente-dottore nei processi di cura e quindi hanno bisogno di un intervento diverso”.

“La tossicodipendenza – aggiunge una sua collega – è frutto di una condizione di marginalità; quindi le cose sono due: o accettiamo questo modo di comportarsi e non lo penalizziamo, oppure pensiamo a un inserimento sociale efficace per chi soffre di dipendenza. Se invece vogliamo ricondurre tutto a un rapporto psichiatra-paziente, quasi sicuramente perderemo queste persone. Un tempo gli utenti erano relativamente pochi e soprattutto eroinomani. Ora assumono molte sostanze diverse: cocaina, alcol, pasticche eccetera, e molti sono dipendenti dal gioco d’azzardo”.

In effetti chi si rivolge a un Sert non è nella stessa condizione di un malato che va dal dottore. Come raccontano bene i lavoratori intervistati, quest’ultimo, per esempio, rispetta un appuntamento, un tossicodipendente spesso invece no. Inoltre, a volte soffre di più patologie: sieropositività, epatite, malattie psichiatriche. Per questo il lavoro in un Sert deve essere d’équipe e ben strutturato. Non solo: la disponibilità di mezzi e servizi, come l’inserimento in comunità, in strutture protette o in un ambiente lavorativo sono fondamentali.

“Se però continuano a tagliarci fondi – racconta ancora un lavoratore – operare diventa sempre più frustrante e il rischio è che anche il nostro orizzonte mentale si fermi nella stanza dove lavoriamo, senza più il desiderio di confrontarsi su un orizzonte più vasto. I nostri Sert così rischiano di entrare in un vicolo cieco e l’impoverimento culturale dovuto alla mancanza di risorse produce poca creatività e capacità di adattamento. Ma le nostre strutture non possono diventare dei semplici centri sanitari che servono a controllare migliaia di persone che, altrimenti, potrebbero andare in strada a fare danni. Siamo e dobbiamo continuare a essere molto di più. Con standard elevati in ogni Regione e adeguato numero di personale”.

Un senso di disomogeneità e precarietà invece affligge i diversi servizi sparsi per la penisola. “Anche i livelli di informatizzazione – sottolinea un operatore pugliese – sono differenti da Sert a Sert, e questo non aiuta a tenere i rapporti con i soggetti esterni, come carceri, Comune eccetera. Il fatto che gli operatori non siano stabili rende le riunioni di équipe meno strutturate, anche se poi il nostro lavoro si tiene in piedi egregiamente grazie alle relazioni che si instaurano tra noi. Nonostante le grandi differenze che esistono tra le strutture e i piani di rientro regionali sulla Sanità che rendono i servizi più o meno efficienti”.

Insomma, come conclude uno dei tanti operatori che ogni giorno lavora nel disagio riuscendo, nonostante tutto, a “mandare avanti la baracca”, “una società in crisi crea problemi e dipendenze. La frustrazione più grande è non poter far nulla mentre si potrebbe e vorrebbe fare di più. Basterebbe, semplicemente, che si ascoltassero le nostre esigenze”.