Ogni anno, in Italia, circa 3mila persone muoiono per esposizione all’amianto. La fibra killer, come viene chiamata, è stata messa al bando nel 1992, con l’approvazione della legge 257, che ne vieta la lavorazione e l’utilizzo. Il testo prevede, fra le altre cose, il censimento delle aree e delle strutture contaminate, insieme alla successiva predisposizione di piani di bonifica. Un compito complesso, da attuarsi attraverso la sinergia tra gli enti locali, i singoli cittadini, le imprese, le Asl. 

Complesso, ma non impossibile, se solo ognuno svolgesse il proprio dovere in maniera responsabile. È questa l’accusa che la società civile e le associazioni che rappresentano le vittime dell’amianto rivolgono alle istituzioni. Anni di negligenza e di corruzione hanno prodotto una mancanza di controllo sulla situazione generale e nei territori. Secondo l’Istituto superiore di sanità, il picco delle morti per mesotelioma pleurico, tumore collegato all’amianto, è previsto tra il 2015 e il 2020.

La malattia ha un periodo di incubazione di circa 25 anni, per cui il dato riguarda essenzialmente chi, prima del 1992, lavorava la fibra o era a contatto con essa. Ma il problema, oggi, è che nonostante la messa al bando del minerale, la sua presenza nella nostra vita quotidiana è ancora altissima, e ciò protrae il rischio di ammalarsi, anche in futuro.

Ancora oggi, infatti, l’amianto è presente negli edifici pubblici e privati: dagli ospedali alle scuole, fino alle abitazioni private. È stato utilizzato per la costruzione di tetti e grondaie, delle tubature e per la coibentazione degli ambienti. La salvaguardia della salute deve estendersi a tutti i cittadini e a nuove categorie di lavoratori. A cominciare da chi effettua le bonifiche.

Tiziana Vai, medico del lavoro presso la Asl di Milano, osserva come “negli ultimi anni, anche in virtù della crisi, la qualità del lavoro di chi effettua le bonifiche è peggiorata. Oltre alle imprese più accreditate, che continuano a rispettare standard di sicurezza adeguati, assistiamo alla nascita di tante piccole ditte, che operano in subappalto, in condizioni spesso affrettate, in economia, e con livelli di protezione insufficienti”.

Le conseguenze si manifesteranno in seguito. Un problema simile riguarda quei lavoratori che effettuano interventi di edilizia sia pubblica che privata, come i manutentori degli impianti termotecnici, gli installatori, gli addetti alle pulizie, che anche inconsapevolmente vengono a contatto con l’asbesto nello svolgimento del proprio lavoro.

Magari, nemmeno i committenti ne sono coscienti. L’ostacolo più grande da superare, in materia di amianto, sembra essere quello della conoscenza del fenomeno. Non esistono campagne che informino i cittadini. A tale proposito Giacinto Botti, segretario regionale della Cgil Lombardia, sottolinea che “le conseguenze derivanti dall’esposizione all’amianto sono sottovalutate, rimosse per ignoranza, disinteresse. Ma anche laddove c’è consapevolezza, mettiamo il caso di una famiglia o di un condominio che intendano effettuare lavori di bonifica, non si può pensare che le affrontino senza agevolazioni e adeguati sostegni pubblici. Il rischio è che la rimozione e lo smaltimento non si facciano affatto; o, peggio, che avvengano non attraverso gli operatori e le aziende preposti, ma sotterrando o gettando l’amianto nei cassonetti, nei fossi e in campagna”.

Botti è intervenuto in occasione della Conferenza regionale prevenzione amianto, svoltasi a Milano l’8 e il 9 novembre, indetta dal Comitato prevenzione amianto Lombardia (Copal). La Lombardia è tra le regioni italiane più interessate da questo problema. I numeri sono elevati: si parla di 3 milioni di metri cubi presenti su tutto il territorio, ma si tratta di un dato approssimativo. Il censimento dei siti è davvero lontano dall’essere esauriente, qui come altrove.

C’è scarsa consapevolezza, si diceva, ma anche una colpevole mancanza di chi, sapendo della presenza di amianto in una determinata struttura, non lo segnala alla Asl, cavandosela, se scoperto, con una multa di 200 euro. Incentivi e deterrenti sono ancora scarsi. La condotta delle istituzioni, ambivalente: in parte irresponsabile, ma anche segnata dalla scarsità di mezzi. Quello che doveva essere un obbligo di mappatura sancito dalla legge è così affidato alla buona volontà di chi è costretto a vedersela con carenze di organico e di finanziamenti.

La questione non riguarda solo le aree inquinate, ma anche le persone malate o potenzialmente a rischio. L’Italia è tra i pochi paesi a possedere un registro dei mesoteliomi, ma le forme tumorali legate all’amianto non si limitano a questa patologia. Neoplasie come quelle al polmone, alla laringe e alle ovaie, molto diffuse tra la popolazione, possono, in alcuni casi, derivare dall’esposizione all’amianto.

L’Inail è tenuto per legge, attraverso il coordinamento con le Regioni, a ricostruire un registro dei tumori professionali. Attraverso il metodo Occam è possibile incrociare i dati forniti da Inail e Inps, deducendo l’incidenza di certe patologie tra particolari categorie di lavoratori. In tal modo si può creare un sistema di sorveglianza sanitaria aperto a nuove prospettive di ricerca, che estende i suoi benefici all’intera collettività. È un sistema che funziona in maniera molto semplice e immediata, con costi irrisori. Nonostante ciò, l’Inail non ha dotato il dispositivo Occam di risorse, e proseguire in questo lavoro di ricostruzione è sempre più faticoso.

Che dire, poi, degli ostacoli burocratici e legislativi, che rendono difficoltoso il godimento dei benefici previdenziali e pensionistici in favore degli ex esposti? “Affrontare il problema amianto e risolverlo presuppone una visione organica e generale – conclude Botti –. Bisogna lottare per un’idea di sviluppo e di progresso che abbia al centro non il profitto ma il valore della vita. Occorre farlo in questa situazione di crisi, nella quale la prevenzione, la tutela della salute e della sicurezza corrono facilmente il rischio di essere considerati un costo, e non una risorsa”.