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Il 16 giugno 1901, a Livorno, aveva inizio il congresso costitutivo della Fiom. Giunti da ogni parte d’Italia, i delegati presenti nella sede della Fratellanza artigiana della città toscana, rappresentavano 40 sezioni (altre 18 avevano inviato la propria adesione) e più di 18mila iscritti. A tenere la relazione fu chiamato l’operaio Aristide Becucci, mentre il primo segretario eletto fu Ernesto Verzi, 29 anni, nato a Firenze, ma residente a Roma dove svolgeva l’attività di incisore di metalli. Nel 1906 la Fiom partecipava alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgdl, in seguito Cgil) e nel 1919 firmava il primo accordo nazionale con i rappresentanti degli industriali, che prevedeva – tra le altre cose – la riduzione dell’orario di lavoro a 48 ore settimanali (otto ore al giorno per sei giorni alla settimana).
Rivolgiamo i nostri migliori auguri di buon compleanno alla Fiom riproponendo le parole pronunciate il 18 ottobre 2001 a Bologna da Bruno Trentin (segretario generale della federazione dal 1962 al 1977) in occasione del centenario della federazione di categoria dell’Emilia Romagna: “Ho apprezzato moltissimo – disse in quell’occasione Trentin – sia i contenuti sia la scelta metodologica che ha ispirato l’organizzazione di questo convegno sui cento anni della Fiom, cadenzando il momento di riflessione nelle due fasi che hanno visto quella dei metalmeccanici come un’esperienza-guida nell’ambito del movimento sindacale italiano e nei confronti della sinistra politica del nostro paese. Convengo molto, inoltre, con la tematica sulla quale si sono concentrate le riflessioni per questi due periodi decisivi: quello degli anni venti, e quello del ’69-70. Essi hanno coinciso con due momenti di svolta epocale della storia del nostro paese”.
Da Trentin, soltanto “alcune sottolineature”: “La prima, che mi sembra essenziale, è che in questi momenti si è fondata, come diceva Tagliani, una massa critica che ha determinato un tipo di conflitto sociale che usciva dalle logiche corporative. Sono momenti in cui due dati essenziali hanno coinciso: gli obiettivi dell’azione rivendicativa e le forme di rappresentanza. Lo dico per arrivare subito alle conclusioni, e cioè che le Rsu non sono buone per tutti gli usi e per tutte le stagioni: o sono uno strumento di partecipazione collegata a un certo tipo di contenuto rivendicativo, oppure sono la brutta copia delle commissioni interne. Così è stato negli anni venti e nel periodo che va dai primi anni sessanta al ’69-70, quando sono venuti coincidendo un certo tipo di tematica rivendicativa e politica, con la ricerca di nuove forme di rappresentanza”.
C'è un rapporto, a giudizio di Trentin, che ritroviamo in queste fasi della storia sindacale: “Quello fra gli obiettivi con forme di rappresentanza e l’emergere di condizioni nuove per la costruzione anche di un momento di unità fra le diverse forze sindacali. Anche in questo caso, il rapporto tra gli obiettivi e l’unità, come quello tra gli obiettivi e le forme di rappresentanza, non va mai trascurato. Si può dire, infatti, che ovunque siamo costretti alla difensiva, e ovunque vengano insidiati gli istituti di rappresentanza, entra in crisi automaticamente l’unità sindacale; non solo l’unità tra le confederazioni e i sindacati, ma anche il tipo di unità che si raggiunge all’interno dello stesso sindacato o confederazione. Questo mi è venuto in mente riflettendo sulla fase che vede passare la Cgil e la Fiom attraverso un’esperienza fortemente innovativa, rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, da sindacato di mestieri a sindacato di categoria, che non corrisponde più ad una somma di professioni e mestieri, per arrivare, poi, ai consigli di fabbrica, quando questa evoluzione di trent’anni coincide con l’emergere di nuovi contenuti rivendicativi che riflettono la difficile reazione dei lavoratori e del sindacato di fronte all’inizio del taylorismo (…)”.
I consigli, nel ragionamento dell’ex segretario generale di Cgil e Fiom, erano gli strumenti più adatti a governare un tipo di conflitto incentrato sull’orario, le condizioni di lavoro, il controllo e la contrattazione del cottimo, e per contrastare nel reparto la segmentazione del lavoro dannosa per giovani e donne. “Secondo me, era inseparabile questa sinergia tra nuove forme di rappresentanza, che si facevano strada unitariamente anche in molti altri settori – e che hanno coinvolto, in parte, anche il tipo di lotta nell’agricoltura –, e l’emergere di alcuni obiettivi rivendicativi. La sconfitta nascerà anche dal fatto che, a mio parere, non solo mutò il quadro politico, ma, nel momento in cui si esasperò il conflitto fra partito e sindacato – alla fine dell’accordo sulle lotte operaie nel Nord –, al partito non interessava più l’esperienza consigliare, che riteneva ormai sconfitta, né la gestione e il governo dei risultati della contrattazione sindacale. Perciò, quello che fu certamente un risultato ambiguo, a una prima lettura, fu vissuto come una sconfitta (…)”.
Gli anni compresi tra il ’60 e il ’69-70 vedono maturare nuove forme di rappresentanza e democrazia – e qui contano moltissimo i problemi generazionali e il peso che ha avuto il movimento studentesco – insieme a nuove rivendicazioni e contenuti. “Il ’63 – sempre dall’intervento di Trentin del 2001 – è il periodo in cui venne riconosciuta per la prima volta, sia pure in forme asfittiche, la contrattazione decentrata nel luogo di lavoro. Tutta una tematica si era fatta strada anche in anni molto precedenti il ’69-70 e costituiva il primo tentativo organico in Europa di risposta al taylorismo, su basi propositive. Si trattava della contrattazione dei tempi di lavoro e delle cadenze, mentre i contratti del ’69 e del ’74 comportano la conquista, a seconda dei settori, di 4 o 5 ore di riduzione di orario, le prime forme di negoziazione dell’organizzazione del lavoro. Si toccavano anche le questioni della salute e delle 150 ore. Il campo della formazione diventerà decisivo e strategico. In quegli anni coincisero per la prima volta obiettivi quantitativi, anche molto avanzati, e la sanzione dei diritti fondamentali, che erano assolutamente cancellati o regrediti negli anni che vanno dal ’55 al ’70. In questo senso lo Statuto dei lavoratori ha un padre che è il contratto dei metalmeccanici del ’69-70. Fu un modo di rappresentare un universo anche allora composito e articolato che caratterizzava il mondo del lavoro. Questa fu la massima saldatura – sulla quale insisto – fra contenuti e gli obiettivi rivendicativi e le forme di rappresentanza”. (LEGGI TUTTO).
Ilaria Romeo è la responsabile dell’Archivio storico Cgil nazionale