Una ferita che sanguina: questo rappresentano per la Cgil le 800mila donne costrette a lasciare il lavoro con una lettera in bianco firmata all'assunzione, una sorta di ipoteca che non lascia scampo al futuro: "Se fai figli ti licenzio. Anzi, ti licenzi". E proprio per tentare di sanare questa, e altre ferite, con proposte e riflessioni concrete che si è svolta dal 12 al 14 dicembre la tre giorni di seminari 'Le donne cambiano...l'Europa, il welfare e la contrattazione', perché, come hanno scritto le organizzatrici, "la ricostruzione del Paese passa attraverso l'occupazione femminile e un nuovo welfare".

"C'é un filo doppio che tiene insieme l'Assemblea che abbiamo svolto a giugno, Le donne cambiano..., i seminari di questi tre giorni, le assemblee territoriali che faremo e la prossima Assemblea nazionale", ha spiegato Titti Di Salvo dell'Ufficio Politiche di Genere della Cgil, nella sua relazione a una platea di più di 100 donne venute da tutta Italia. "Ovvero la convinzione che il lavoro produttivo e riproduttivo delle donne crei valore per tutti e che dunque per uscire dalla crisi l'Italia e l'Europa debbano investire sul loro lavoro".

Le chiamano dimissioni in bianco, quella lettera poggiata lì insieme al contratto, e si uniscono alla vergogna tutta italiana di essere un Paese all'86esimo posto nella classifica mondiale del Gender Gap, con una disoccupazione giovanile e femminile che sfiora il 50 per cento al Sud e un Parlamento che, nonostante le "quota rosa", veste in blu con meno del 20 per cento di parlamentari donne.

"Eppure – ha ricordarato Di Salvo – mentre una donna su 4 lascia il lavoro alla nascita del primo figlio, la Banca d'Italia ha quantificato nel 7% l'aumento del Pil se l'occupazione femminile raggiungesse il 60%". Mentre un aumento dell'occupazione femminile che raggiunga quella maschile potrebbe generare addirittura incrementi del Pil del 22%. Tutto questo mentre il welfare continua a essere considerato un lusso e sulle politiche lavorative e di lotta alla precarietà, che colpisce soprattutto le giovani donne, si fa poco.

L'unica nota dolente di questo seminario: i pochi uomini presenti, a dimostrazione forse che il lavoro non è che all'inizio.

"Vogliamo intanto far emergere come politiche pubbliche inclusive e un welfare di qualità siano la condizione necessaria per sostenere il lavoro e quindi la libertà e l'autonomia delle donne nel nostro paese", ha detto Rosanna Rosi, responsabile dell'Ufficio Politiche di genere Cgil. Per fare questo, però, bisogna partire dalla realtà: "Siamo di fronte ad una riduzione progressiva del perimetro del welfare italiano – ha detto la sindacalista –, nel quale spesso la condizione di lavoratrice non consente di per sé l'inclusione o l'accesso a prestazioni sociali, come ad esempio il diritto alla pensione per le lavoratrici precarie e discontinue oppure il mancato riconoscimento della maternità in termini di valore sociale".

Siamo avviati verso un welfare minimo, costruito secondo una logica assicurativa, dunque individuale e non solidale, che esclude sempre di più le persone, tutte, ed in particolare le donne, i giovani, le persone immigrate, gli anziani. Ma questa "assenza o scarsità di servizi – ha aggiunto Rosi - viene scaricata sulle donne che conseguentemente si aggravano sempre di più di lavori di cura, il cui valore, peraltro, non viene riconosciuto né socialmente, né economicamente, né dal punto di vista previdenziale". Basti pensare che nel nostro paese la spesa sociale destinata alle famiglie con minori rappresenta solo l'1,4% e gli stanziamenti del fondo per le politiche sociali sono passati da 1 miliardo di euro nel 2005 a 178 milioni di euro nel 2012.

Dal Nord, passando per il Centro fino al Sud, dove - ha ricordato Luisa Albanella della Cgil di Catania – "sono preoccupanti le situazione e i numeri scarsi degli asili nido, che non raggiungono neppure il 5% del territorio". Eppure questo è un servizio fondamentale se si vuole parlare di occupazione femminile, senza tralasciare però, come ha ricordato nel suo intervento Vera Lamonica, segretaria confederale, anche la qualità degli asili stessi. Tra gli obiettivi della strategia di Lisbona per l'anno 2010 era previsto l'aumento dell'offerta di asili fino a coprire il 33% della popolazione nella fascia di età sotto i tre anni. "Un incremento del numero dei nidi del 10% - ha sottolineato Rosi - farebbe aumentare la probabilità di lavorare del 7% per le donne più istruite e addirittura del 14 % per le donne meno istruite".

Invece le "donne al Sud, come anche in altre parti d'Italia, non cercano nemmeno più il lavoro"; ha denunciato Patrizia D'Angelo, della camera del lavoro di Pozzuoli. "Nel territorio campano la precarizzazione e assenza di lavoro ha provocato danni sopratutto alle più giovani".

"In territori come il nostro – ha raccontato Cinzia Basso, della Cgil Veneto – il mobbing strategico verso le donne ha toccato punti elevati, e i nostri consultori hanno registrato un'elevata presenza di donne cadute nella depressione a causa di questo fenomeno. Noi donne dovremmo intentare una class action per quello che ci stanno facendo".

Molti interventi, tra cui quello di Linda Laura Sabbatini, hanno evidenziato il problema di molte donne, in particolar modo le cinquantenni, schiacciate tra lavoro di cura di nipoti e anziani, reso ancor più gravoso dal prolungamento dell'età pensionabile con la legge Fornero e dalla mancanza di investimenti pubblici in servizi, nonché dall'azzeramento dei Fondi sociali nazionali, come quello sulla non autosufficienza.

L'iniziativa si è chiusa con l'intervento di Susanna Camusso
. "Che senso ha per noi – ha detto il segretario generale della Cgil -, in questa stagione, ragionare sul tema del ruolo, della dignità e dell'identità delle donne? Guardando al movimento femminista del passato possiamo dire che si è fermato alle soglie del lavoro. Anche il movimento attuale delle donne pone al centro del suo dibattito il lavoro e lo stato sociale, proprio mentre le politiche di rigore europee hanno inciso profondamente nella vita delle persone tagliando il welfare e il pubblico. Queste politiche di tagli hanno un'incidenza maggiore sulle donne".

Secondo Camusso "serve uno straordinario movimento delle donne che dica che le politiche di rigore altro non sono che uno dei tanti modi con cui si riconducono le donne a un lavoro di supplenza nei confronti delle responsabilità dello Stato". Si riparte dalle donne, quindi, dal loro lavoro, dalla loro formazione, dalla loro rappresentanza e gestione di tempi e spazi. È l'Italia che deve ripartire da lì.