Le relazioni con persone esterne, che siano clienti, pazienti, alunni o gente in fila allo sportello, questa è la prima causa di stress e rischio psico-sociale in Europa. A dirlo sono i primissimi risultati della seconda “European Survey of Enterprises on New and Emerging Risks” (Esener-2) (scarica il pdf), ossia la ricerca europea sui rischi nuovi ed emergenti, realizzata nell’estate-autunno scorso dall’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro (Eu-Osha) di Bilbao, con particolare attenzione all’individuazione di rischi psicosociali, stress lavoro correlato, molestie e violenze. Lo studio è stato effettuato in oltre 49 mila imprese (con minimo cinque dipendenti) presenti in 36 paesi europei. I risultati completi saranno pubblicati nel corso del 2015, mentre una nuova tornata di dati è prevista per il 2017.

In generale, i primi rischi segnalati sono le relazioni con clienti (58 per cento degli intervistati), l’assunzione di posture faticose o dolorose, compreso lo stare seduti per lunghi periodi (56), i movimenti ripetitivi di braccia e mani (52). Seguono, con quote minori, il rischio di incidenti con macchine e utensili manuali, la movimentazione di carichi pesanti, il rischio di incidenti con veicoli e la pressione data dai ritmi incalzanti.

I fattori di rischio psicosociali sono percepiti come più impegnativi di altri rischi, eppure nel 20 per cento delle imprese europee mancano le informazioni adeguate e gli strumenti per affrontarli. Solo il 55 per cento delle aziende che impiegano 20 o più lavoratori riferiscono di avere una procedura per gestire eventuali casi di minacce, abuso o aggressioni da parte di clienti o altri soggetti esterni, una quota che sale al 72 per gli istituti che si occupano di istruzione, salute e assistenza sociale. In questo senso l’Italia è il paese messo meglio, almeno “formalmente”, visto che nel 94 per cento delle imprese viene svolta con regolarità la valutazione dei rischi psico-sociali.

A muovere le aziende a svolgere questa valutazione è anzitutto l’obbligo giuridico (85 per cento), poi la necessità di rispondere alle aspettative di dipendenti e sindacati, voler evitare le multe comminate dagli ispettorati del lavoro e voler mantenere una buona reputazione dell’azienda. L’indagine Esener-2 rileva, comunque, una certa “riluttanza a parlare apertamente di questi problemi”, che viene indicata come il principale ostacolo per la soluzione dei rischi psico-sociali. Una riluttanza che si riverbera anche sullo scarso utilizzo degli psicologi (sia in-house sia esterni), consultati solo dal 16 per cento delle imprese: in Italia si avvale di queste figure solo 10 per cento delle aziende, la punta massima (circa il 60 per cento) è in Svezia e Finlandia.

Per quanto riguarda la partecipazione dei dipendenti, la ricerca constata che nel 63 per cento delle aziende
questi hanno avuto un ruolo nella progettazione e nella messa a punto di misure preventive. Un coinvolgimento giudicato comunque non sufficiente, proprio in virtù della particolare natura di questi rischi. L’ultima annotazione è sulle forme di rappresentanza dei lavoratori: il rappresentante per salute e sicurezza è coinvolto nel 58 per cento delle imprese, con punta massima del 67 per quelle che si occupano di istruzione, sanità e assistenza sociale.