C’è il corriere, la cuoca, l’operaio edile, l’impiegato, il facchino, il ferroviere. Mestieri diversi ma accomunati da un’unica condizione, quella di essere svolti da lavoratori e lavoratrici in appalto e per questo più deboli, precari, talvolta invisibili. In questi giorni nei quali di appalti si parla molto per altre poco nobili ragioni, le storie e le condizioni di chi lavora in questo universo, che vale il 15% del Pil nazionale, non emergono quasi mai. Eppure si tratta di tre milioni e mezzo di persone.

La campagna che la Cgil sta portando avanti per una legge di iniziativa popolare sugli appalti punta anche a questo: far venire fuori queste storie, dargli voce e visibilità. Noi ne abbiamo raccolte alcune, a Perugia, in occasione di un’iniziativa promossa da Filcams, Nidil, Funzione Pubblica e Filt Cgil, nella giornata nazionale di raccolta firme per l’iniziativa di legge promossa dal sindacato.

Wladimiro e Daniele Suvieri sono padre e figlio. Lavorano entrambi alla Ducops, grossa cooperativa di servizi (pulizie e logistica) che occupa circa 450 soci lavoratori in Umbria e circa 700 in Italia. Wladimiro lavora in questo mondo da 30 anni e ne ha conosciuto, quindi, la trasformazione. “Oggi le nostre sono aziende a tutti gli effetti, sono come Srl, solo che il capitale è variabile – spiega – e, se quando ho iniziato, il presidente della cooperativa era un lavoratore come me e faceva anche il facchino, oggi non è più così e faccio fatica a sentirmi diverso. Con il jobs act poi le differenze si sono ulteriormente ridotte: prima l’articolo 18 non ce l’avevamo solo noi delle cooperative, ora non ce l’ha più nessuno. Una bella soddisfazione!”. Daniele invece di anni ne ha solo 29, ma anche lui comincia ad avere una certa esperienza nel settore. “Faccio il facchino, lavoro 39 ore settimanali e guadagno poco più di mille euro al mese – racconta – ma ho già imparato sulla mia pelle cosa succede quando il committente vuole ridurre ulteriormente i costi. Si alzano i ritmi, aumenta la fatica e anche il rischio di farsi male, ma i lavoratori non si fermano mai, perché a prevalere è sempre la paura di poter perdere il posto”.

Di posti se ne sono persi e non pochi ad esempio negli appalti del gruppo Tk-Ast, le grandi acciaierie di Terni. Nei 40 giorni di sciopero degli operai ternani, persino sotto le manganellate della polizia, c’erano anche loro, i lavoratori dell’indotto, un universo di ditte piccole e piccolissime che messe insieme arrivano però a qualcosa come 1.500 addetti, quasi un’altra fabbrica. “Noi siamo quelli usciti peggio dall’accordo del 3 dicembre su Ast – spiega Manolo Lucentini, operaio della ditta Pallotta – perché la multinazionale, già prima della firma, aveva cominciato una politica di ribassi impressionante, con tagli secchi anche del 20%, che naturalmente ricadono su di noi. Ma il nostro è un lavoro manuale, anche molto duro, e se si riducono gli addetti o si aumentano i ritmi, allora è la nostra sicurezza ad essere messa in discussione”.

La cooperativa Cascina lavora invece negli appalti di Trenitalia, grande realtà industriale con una tradizione positiva, almeno in Umbria, di contrattazione inclusiva. “Possiamo dirci fortunati rispetto a tanti altri colleghi – ci dice Sandro Gentili, lavoratore della cooperativa folignate – perché noi abbiamo il contratto dei ferrovieri, che è senz’altro molto meglio di quelli di solito applicati alle cooperative. Tuttavia, negli ultimi anni, abbiamo subito qualcosa come 6 cambi di appalto e in ognuno di questi abbiamo perso qualche mensilità di stipendio. Questo, perché Trenitalia ha indetto sempre di più gare al massimo ribasso. Nel mio appalto ne è stato applicato uno del 34%, con l’effetto di un’impennata del ricorso agli ammortizzatori sociali. Noi ad esempio utilizziamo contratti di solidarietà dal 2012”.

Ma c’è sempre chi se la passa peggio, come Antonio Morrone, che lavora come corriere per una cooperativa degli appalti Sda (gruppo Poste Italiane). “Noi corrieri siamo tanti in Italia, ma è come se non esistessimo perché non abbiamo un contratto di riferimento. Veniamo assunti come autisti, ma facciamo anche i meccanici, i gommisti, i facchini, i postini”. Antonio racconta che, qualche anno e numerosi passaggi di appalto fa, lui e suoi colleghi lavoravano praticamente a cottimo: “Una consegna valeva 82 centesimi e bisognava correre come pazzi in furgoni che sono vere e proprie bare con le ruote, con rischi davvero altissimi, e tutto per tirare su a fine mese poco più di 500 euro”. Poi, dopo una lunga vertenza sindacale la situazione è un po’ migliorata. “Ora siamo contrattualizzati, part time a 6 ore, anche se ne facciamo spesso il doppio, ma almeno abbiamo ferie, malattia, 13esima e 14esima”.

Cristina Canestrelli invece la 14esima non ce l’ha, anche se lavora fianco a fianco con cuoche che fanno il suo stesso identico mestiere, ma che sono dipendenti dirette del Comune o di cooperativa che applicano contratti diversi dal suo. “Ad ogni passaggio di appalto la nostra condizione peggiora – ci racconta - e perdiamo qualcosa, in termini di ore, di diritti, di rapporti, dovendo ricominciare a pagare una quota sociale e via dicendo. I primi tre giorni di malattia prima ci venivano pagati, ora no, tanto per fare un esempio”. Di certo, i continui tagli agli enti locali e quindi alle stazioni appaltanti non aiutano. “Ma queste difficoltà devono sempre ripercuotersi sulla pelle dei lavoratori?”, si chiede Cristina. “Non possiamo, insieme, affrontare la questione, anche pensando a una minore frammentazione delle cooperative, che comunque abbondano in tecnostrutture e costringendo gli Enti appaltanti al pagamento e a una maggiore chiarezza sui capitolati di appalto? Non possiamo portare la Regione a rivedere i tariffari? E instaurare relazioni sindacali più incisive senza essere minacciati? Quello che vorrei davvero – conclude la lavoratrice – è di non dover più sentire: o ti va bene così o quella è la porta. Sono stanca di sentirmi figlia di un dio minore”.