Perché ci si iscrive a un sindacato? A questa domanda, che assume oggi – a poche settimane dalla Conferenza di organizzazione della Cgil – un significato di particolare rilievo, ognuno ha probabilmente un’articolata gamma di risposte che si possono ricondurre a due temi fondamentali, peraltro non reciprocamente esclusivi. Ci si iscrive a un sindacato (soprattutto a un sindacato come la Cgil) per comunanza con la visione della società che quel sindacato esprime (una forma di adesione ideale) e/o per aver esperito nella propria vita lavorativa e sociale un miglioramento (non necessariamente economico) attraverso l’azione collettiva esercitata con e attraverso il sindacato e i suoi iscritti.

Mentre l’adesione ideale accomuna i sindacati con i partiti politici, quella pragmatica è tendenzialmente esclusiva, in quanto solo i primi sono titolati a intervenire attraverso la delega di rappresentanza nel concreto delle rivendicazioni sui luoghi di lavoro. Non solo. Vi è anche una differenza più sottile: in un’ottica di causa-effetto, le due forme di adesione sono inverse: in quella ideale è l’organizzazione che esprime una posizione e l’individuo che vi si riconosce, in quella pragmatica è invece l’individuo che esprime un’istanza, un bisogno, che trova risposta nell’agire dell’organizzazione.

Questo ragionamento ci può aiutare a leggere in una prospettiva originale le dinamiche di una polemica altrimenti stanca e ripetitiva: la critica che oggi si sente muovere con frequenza crescente al sindacato, un ritornello ormai stereotipato sulla mancata adeguatezza al nuovo mondo del lavoro, che contrappone un presunto aggregato di garantiti e privilegiati a una massa sociale che non trova nel sindacato stesso un soggetto che si batta per garantire difese e tutele.

Ciò su cui si intende riflettere qui è che l’approccio che sottende la formulazione di queste critiche implica una curiosa visione “dall’alto” dei fenomeni rivendicativi. Una visione secondo cui starebbe al sindacato farsi promotore e animatore delle nuove forme di contrasto (quali esse siano) necessarie nel mutato scenario. Nella storia, è sempre accaduto piuttosto il contrario: quando nuovi fenomeni di sfruttamento e disagio prendono forma, e incidono nella vita delle persone, sono le istanze “dal basso” che portano gradualmente a dare forma a nuove lotte, utilizzando certamente le istituzioni esistenti, ma in direzione esattamente opposta all’idea di un’organizzazione che detti forme di lotta e contenuti vertenziali a lavoratori che verrebbero a essere salvaguardati attraverso disegni eterodiretti.

Il tema della riconoscibilità come interlocutore del sindacato, soprattutto nei confronti di chi è estraneo (e magari ostile) a esso, oltre ad andare ben oltre la platea dei nuovi lavori, interessando potenzialmente l’intera società, tutto sommato appare formulato ragionevolmente, perché consente di spiegare un paradosso dei nostri tempi. In un’epoca in cui il legislatore ha progressivamente peggiorato le condizioni di vita per una larghissima parte della forza lavoro, il sindacato – in quanto avversario istituzionalmente riconoscibile di queste tendenze – dovrebbe vivere una stagione di successo rinnovato, un’esplosione di adesioni e di consenso.

Il fatto che ciò non avvenga non è spiegabile addossando la colpa a un effetto ideologico di propaganda delle critiche già descritte, in quanto l’interesse concreto e pragmatico del lavoratore è normalmente (e in misura maggiore nei nostri tempi) piuttosto scevro da orpelli ideologici. Ma non è nemmeno spiegabile prendendo quelle critiche per buone, cioè addossando al sindacato una presunta omissione d’ufficio, poiché – per quanto consistente possa essere quell’omissione – oggi come oggi è estremamente improbabile che un qualunque lavoratore possa entrare in una Camera del lavoro ed esserne allontanato perché non corrispondente alla tipologia degli assistiti.

Dunque, l’idea di un sindacato sordo alle necessità del lavoratore può essere un’utile vulgata per attacchi strumentali, ma non possiamo assumerla come spiegazione credibile per un fenomeno che invece è reale, e cioè la mancata adesione massiva (in termini di iscrizioni o di semplice consenso sociale) al sindacato. Chi scrive ha ascoltato molte storie di sindacalizzazione fallimentari sul piano del risultato, ma che hanno determinato l’adesione alla Cgil di interi contesti lavorativi alla luce della capacità di farsi interlocutori. Spesso ciò è il risultato dell’azione di singoli sindacalisti, ma non – o non solo – per maggiore o minore capacità, quanto a causa dell’ovvia difficoltà per i lavoratori di individuare in un’organizzazione di dimensioni importanti l’interlocutore più idoneo.

Nella Cgil, figure di questo tipo, per ogni ambito lavorativo e contesto geografico, sono numerose, ma non semplici da individuare per un soggetto esterno, anche passando per l’instradamento delle Camere del lavoro, che comporta comunque la necessità per i lavoratori di recarsi di persona in una struttura, dopo averne identificato la funzione: l’impalcatura organizzativa di una realtà composta da milioni di persone è infatti inevitabilmente complessa e articolata, e a farne le spese finisce così per essere il primo soggetto che dovrebbe venirne esonerato, cioè il lavoratore, specie se non edotto, specie se diffidente.

Quest’ultima riflessione ci porta a un interrogativo suggestivo: è ipotizzabile che quell’adesione auspicata passi semplicemente attraverso una semplificazione tecnica a trovare nell’organizzazione la persona più adatta (per esperienza, collocazione geografica, competenze)? Oggi la tecnologia facilita enormemente questo processo, offrendo strumenti eccezionali sul piano dell’efficacia comunicativa. L’impressione è che però tali strumenti siano stati sfruttati prevalentemente nell’ottica dell’adesione ideale, quella in cui il sindacato parla di sé, promuove la sua politica e cerca adesione; anziché di quella pragmatica, in cui l’organizzazione mette a disposizione strumenti per “farsi trovare”.

Osservando la pagina web della Cgil, si nota che essa ha una struttura di estrema efficacia nel caso dell’adesione ideale: uno slider che illustra visivamente le posizioni pubbliche dell’organizzazione (comunicati stampa, iniziative, eventi) e che, contestualmente, consente di iscriversi con una casella ben visibile (si tratta in realtà di una pre-iscrizione, quella vera avverrà secondo i canali delle categorie). Viceversa, la stessa pagina non è altrettanto efficace secondo un approccio pragmatico, legato all’interlocuzione, alla costruzione di un rapporto, alle relazioni sindacali, che richiede invece un periodo di affiancamento e la costruzione di un’azione collettiva.

Per trasporre l’impostazione su questo secondo piano, basterebbe immaginare sulla medesima pagina web una casella, un banner, un’icona informale che riportasse esplicitamente l’invito a un’interlocuzione (“Hai un problema sul lavoro? Parliamone...”), e che una volta cliccata conducesse per mano attraverso un percorso chiaro, identificando i diversi ambiti di lavoro (dipendente, atipico, professionale, ma anche pensionato, disoccupato, lavoratore in nero), l’area geografica e il contesto merceologico, fino a portare a una risposta che non dovrebbe essere quella di una casella e-mail cui scrivere, bensì di un nome, un cognome e un numero da chiamare (“Ciao, sono Marco Rossi, della Cgil, puoi chiamarmi a questo numero e in questi orari, parleremo del tuo problema e cercheremo assieme di capire cosa fare”).

Un simile espediente, che rappresenta un semplice esempio fra i molti possibili, consentirebbe di valorizzare a tutti i livelli, locali e settoriali, le competenze specifiche, ma soprattutto solleverebbe dalla ricerca di tali competenze, nel labirinto delle strutture, l’unica figura su cui il peso di quella complessità non dovrebbe essere scaricato. Ci si è voluti soffermare su questo esempio tecnico a semplice titolo illustrativo, per evidenziare i margini di crescita che possono derivare da un approccio diverso agli strumenti di dialogo, ma soprattutto per sottolineare il possibile rischio che il sindacato finisca per essere prigioniero delle stesse critiche che gli vengono rivolte.

La conquista di consenso sociale, a tutti i livelli, e di un rapporto di forza favorevole, è oggi di estrema importanza nel gioco della comunicazione politica, e se assistiamo alla paradossale situazione di una popolazione che ha e avrà sempre più bisogno di azione rivendicativa e di un sindacato che quell’azione sa e può organizzarla, è lecito chiedersi se la mancata saldatura fra queste due istanze non sia semplicemente un problema di corretto utilizzo, in un’ottica meno ideale e più pragmatica, delle tecniche di comunicazione.