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Era la sera del 10 marzo 1948. Il suo corpo finì in una foiba di Rocca Busambra, alle porte di Corleone. “A ricordarlo non doveva esserci neanche una tomba”, ci dice Pasquale Scimeca che a lui ha dedicato, nel 2000, un film straordinario. È stato per questo, anche, che la notizia dell’attribuzione a Placido Rizzotto, segretario nel dopoguerra della Camera del lavoro della cittadina siciliana, dei resti ritrovati nel 2009 ha destato tanta emozione. La terra, quella terra nel cui nome Placido aveva sacrificato la propria vita, lo ha alla fine protetto, in attesa di un tempo diverso. Un tempo chissà se migliore ma capace di riscoprirne la storia, di ritrovare nella sua personale vicenda e nell’antimafia sociale di allora – perché questo fu, anche, il movimento contadino di quegli anni – le radici dell’antimafia sociale del nuovo secolo. Un legame su cui molto insiste Dino Paternostro, segretario oggi della Camera del lavoro di Corleone e responsabile legalità della Cgil Sicilia, che al sindacalista ucciso dalle cosche ha dedicato una densa biografia (Placido Rizzotto, vedi Rassegna Sindacale, n. 45, 2011, ndr). La persona giusta per ricordare la storia di Rizzotto e il suo insegnamento.
Il movimento contadino
Partiamo dal contesto, la Sicilia: cos’era l’isola nel ’43, al momento dello sbarco degli Alleati, e negli anni immediatamente successivi? “Quella di sempre – risponde Paternostro –: pochi, ricchi proprietari terrieri, cui tutto era permesso, e una moltitudine di contadini poveri, privi dei mezzi più elementari per vivere. Con la complicazione, diciamo così, del banditismo e del movimento separatista. Ma lo sbarco alleato e la caduta del fascismo avevano cambiato il quadro. Da un lato erano rinati i grandi partiti di massa, che misero un freno allo sviluppo del separatismo con la soluzione autonomista; dall’altro c’erano le scelte del governo di unità nazionale, che si pose il problema di dare risposte concrete alla fame di terra dei contadini, emanando i tre decreti Gullo, dal nome del comunista Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura, che riconobbero alle cooperative contadine il diritto di ottenere in concessione le terre incolte o malcoltivate, stabilendo la ripartizione dei prodotti agricoli nella misura del 60% a favore dei contadini e del 40% a favore di proprietari e gabelloti. Un fatto dirompente: perché il diritto alla terra, rivendicazione antica, veniva a essere sostenuto dalla legge. I contadini, la Cgil, i partiti di sinistra, Pci e Psi, accelerarono la costituzione delle cooperative agricole e delle leghe, per avere al più presto gli strumenti che potessero rendere operativi i decreti”.
“Corleone era un comune a forte tradizione socialista – prosegue il nostro interlocutore –. E per utilizzare l’occasione offerta dai decreti Gullo ci si mise subito al lavoro. Rinacque la vecchia cooperativa Unione Agricola e se ne costituirono altre due: la Sacla e la Bernardino Verro. Su queste realtà, sui partiti di sinistra e sulla Cgil, non su altri, ricadde il peso di un movimento che presto divenne lotta contro gli agrari e contro la mafia. A guidarlo, alcuni dirigenti della vecchia guardia di sinistra insieme a giovani dirigenti tra cui appunto Placido Rizzotto”.
La scoperta della libertà
Chi era Rizzotto? “Prima di partire per la guerra un semplice contadino semianalfabeta. La sua vita cambia con la guerra: dopo l’8 settembre del ’43 entra nelle Brigate Garibaldi e combatte in Carnia da partigiano…”. Comprende cosa sia la lotta per la libertà... “Sì, e con questa consapevolezza torna a casa, in Sicilia. È socialista, è molto popolare, diventerà segretario della Camera del lavoro”.
Il nemico, ora, Rizzotto se lo ritrova ogni giorno davanti, ci si scontra di persona, come accade con Luciano Liggio, il suo futuro assassino, picciotto al servizio di Michele Navarra, il medico capomafia di Corleone – lo stesso che poi, nel ’58, “Lucianeddu” ucciderà per prenderne il posto –. “Ci si scontra e lo umilia. Qualche mese prima di morire alcuni studenti corleonesi in odore di mafia avevano provocato un gruppo di ex partigiani di passaggio, vicino alla villa comunale, ironizzando sui loro fazzoletti rossi. Rizzotto era intervenuto e, invece di difendere i paesani, si era schierato con gli amici partigiani, gli ‘estranei’. Aveva così affrontato Liggio, appendendolo materialmente alla grata della villa”.
Agrari e mafiosi
Come matura la decisione del delitto? “Il movimento era andato avanti, rafforzato anche dai successi elettorali delle sinistre: alle elezioni per l’Assemblea costituente; alle amministrative dell’ottobre 1946, in cui venne conquistato il comune (con il 63,11% dei voti) ed eletto sindaco il socialista Bernardo Streva mentre per la prima volta entrava in consiglio una donna, Biagia Birtone, militante comunista; e, soprattutto, alle elezioni regionali del 20 aprile 1947, che videro la lista del Blocco del Popolo prendere a Corleone il 44,41% dei consensi: una percentuale ancora più alta di quella ottenuta a livello regionale, dove pure le sinistre avevano raggiunto la maggioranza relativa. Fu allora che la controffensiva degli agrari e della mafia si scatenò in tutta l’isola. Negli anni precedenti erano già stati assassinati diversi dirigenti sindacali. Adesso il tiro veniva alzato ulteriormente”. Portella… “Già, la strage di Portella delle Ginestre, il 1° maggio 1947, per mano della banda Giuliano”. E questo mentre cambiava rapidamente il quadro politico: la scissione di Palazzo Barberini, Saragat e i suoi che in gennaio lasciano il Psi per dar vita al partito socialdemocratico, la rottura dei governi di unità nazionale, in maggio, con l’estromissione di comunisti e socialisti – seguita, l’anno successivo, dalla scissione della Cgil –.
“Così, mentre continuavano gli attentati alle sedi della Cgil e dei partiti comunista e socialista, e le uccisioni dei suoi esponenti, a Corleone, tra la fine del ’47 e gli inizi del ’48, con le elezioni politiche del 18 aprile ormai vicine, Navarra cominciò a darsi da fare. Bisognava dividere la sinistra, intimidire i suoi dirigenti, in primo luogo i socialisti, che ne erano la forza maggioritaria. Qualche risultato arrivò subito. Il sindaco Streva, l’assessore Giovanni Di Carlo e il consigliere Giuseppe Lodato, tutti socialisti, passarono al partito socialdemocratico. Ma chi l’inquietava di più era Placido Rizzotto, quel giovanotto che ‘non si faceva i fatti suoi’. Doveva tacere, tacere per sempre, così come era accaduto il 2 marzo del ’48 a Petralia Sottana, sulle Madonie, al capolega Epifanio Li Puma, ucciso a colpi di lupara”.
Arriviamo dunque alla sera del delitto, il 10 marzo. “L’incarico di assassinare Placido lo ebbe naturalmente l’uomo di fiducia di Navarra: Liggio, lo ‘sciancato’, come sottovoce lo chiamavano per il morbo di Pott che l’affliggeva. Il compito di attirarlo in trappola fu affidato a Pasquale Criscione, gabelloto del feudo Drago, vicino di casa del sindacalista”.
Che Criscione non fosse estraneo alla scomparsa del figlio, mamma Rizzotto, Rosa Mannino, lo capì subito: “A che ora u lassasti?”. “Alle 10,10”. “E unni?”. “Alla punta alla strata di Marsala”. “E chi ti disse?”. “C’avìa a viniri a manciari”. “Nun lu vitti cchiù, ma dda faccia di veleno si fici bianca e trimava...”, ricorderà in seguito ricostruendo il suo drammatico incontro, la mattina dell’11, con l’uomo che aveva consegnato Placido a Liggio.
E sull’agguato, tanti anni dopo, cinquantasette per la precisione, è proprio Paternostro a raccogliere le parole di un testimone sino ad allora rimasto silente. ‘“Ho visto il sequestro con i miei occhi’, mi confessò Luca, un pensionato di ottant’anni. ‘Allora, la sera di quel 10 marzo 1948, ero un ragazzo di vent’anni. Stavo percorrendo via Bentivegna per tornare a casa, ero arrivato all’altezza di via San Leonardo, proprio davanti alla chiesa, quando vidi alcune persone che discutevano animatamente, quasi litigando. Tra queste riconobbi Rizzotto, lo sentii urlare: Adesso basta, lasciatemi andare! Ma quelli l’afferrarono a forza e lo trascinarono dentro una macchina scura col motore già acceso. Allungai il passo, spaventato, rientrai a casa e non dissi niente a nessuno, nemmeno a mio padre. Questa è la prima volta che parlo di quella sera, di quella terribile sera di marzo’”. Di un altro testimone, un ragazzino di appena dodici anni, Giuseppe Letizia, che il padre aveva lasciato nella contrada Malvello a custodire il gregge proprio la notte del 10 marzo, i mafiosi purtroppo si accorsero. A ucciderlo, in ospedale, con un’iniezione, furono Michele Navarra e Ignazio Dell’Aria, medico come il capomafia.
Le ripercussioni dell’omicidio Rizzotto e della strategia della tensione ante litteram che aveva investito la Sicilia furono immediate. Nelle elezioni del 18 aprile ’48 la Dc vinse anche a Corleone compiendo un balzo di quasi 29 punti percentuali rispetto alle regionali del ’47; mentre il Blocco del Popolo, con soli 1.780 voti, subì un calo del -22,70%.
A Corleone, dopo il delitto, arrivò un giovane ufficiale dei carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa. E qualche tempo dopo, a cercare di rimettere in piedi il movimento contadino, uno studente universitario, il comunista Pio La Torre – per un tragico destino, tornati in Sicilia tanti anni dopo, sarebbero stati uccisi dalla mafia a pochi mesi l’uno dall’altro, nell’82 –.
“Furono proprio Dalla Chiesa e i suoi uomini ad arrestare Criscione e con lui un altro picciotto, Vincenzo Collura – riprende Paternostro –. I due ammisero di aver partecipato al sequestro di Rizzotto insieme a Liggio, indicato come autore materiale del delitto; ma, davanti ai giudici, ritrattarono entrambi. Il 30 dicembre 1952 la Corte d’Assise di Palermo assolse tutti gli imputati per insufficienza di prove, nonostante i familiari di Rizzotto avessero riconosciuto indumenti e resti scheletrici che i carabinieri avevano recuperato in una foiba di Rocca Busambra. La sentenza di primo grado fu confermata anche in appello e divenne definitiva il 26 maggio 1961”.
Dicevi di Pio La Torre… “Ebbe un ruolo importante. Dopo un periodo di sbandamento le lotte per la terra ripresero vigore. Poi la mafia capì che il governo di Roma e gli industriali del nord non erano più disponibili a garantire l’assetto feudale delle campagne siciliane. Il 22 novembre 1950 l’Assemblea regionale siciliana approvò la legge di riforma agraria e per il feudo, nell’isola, fu la fine. Ma non era la legge di Rizzotto e dei contadini poveri. E gli agrari, prima degli scorpori, ebbero tutto il tempo di mettere in vendita la terra migliore, acquistata in gran parte dai campieri e dai gabelloti mafiosi”. Era il “patto” mafia-agrari-Dc, scrivi nel tuo libro, una sorta di atto fondativo “della democrazia malata in Sicilia”. “Sì, la prima riuscì ad accaparrarsi fette importanti di ex feudi, spiccando poi il volo verso la città; i secondi poterono investire nell’edilizia cittadina i capitali delle vendite; la terza consolidò il suo sistema di potere. Qualche anno dopo, per migliaia di contadini poveri espulsi dalle campagne, rimase solo l’emigrazione”.
L’altra Corleone
Per anni nessuno parlò più di Placido Rizzotto, non è vero? “Sembrava uno sconfitto. Invece, Rizzotto ha vinto. Ha vinto perché i giovani di Corleone e la Cgil hanno continuato a tenerne viva la memoria; perché il parlamento ha approvato la legge La Torre sul sequestro e la confisca dei beni mafiosi; perché, grazie alla legge 109/96, tanti di questi beni sono stati assegnati a cooperative sociali formate da giovani. A Corleone in particolare, grazie alle tre cooperative che lavorano sui terreni confiscati, ‘Lavoro e non solo’, ‘Placido Rizzotto’ e ‘Pio La Torre’, si sta affermando l’idea che l’antimafia significa progresso economico. E, grazie ai campi di lavoro attivi dal 2005, migliaia di giovani provenienti da ogni angolo d’Italia sono diventati ambasciatori di un’altra Corleone, della Corleone capace di voltare pagina. Placido Rizzotto l’aveva previsto: ‘Dopo che mi ammazzano non hanno risolto niente. Non è che ammazzando me finisce…’. Non è finita, infatti. E le idee e i valori di Rizzotto camminano oggi sulle gambe di tanti giovani e cittadini onesti”.