A inizio 2018, la Pfizer ha annunciato che sospenderà la ricerca sui farmaci contro l'Alzheimer perché “scarsamente remunerativa”. Nulla da eccepire: il privato, legittimamente – anche se spesso infischiandosene di quella responsabilità sociale d’impresa che magari sbandiera sul proprio sito – analizza e valuta la redditività dei propri investimenti. È per questo, per riequilibrare queste “storture del mercato”, che la ricerca pubblica di base ha un ruolo insostituibile. Ed è perciò che, all’indomani di questo annuncio, il celebre genetista, Edoardo Boncinelli, ha dichiarato: “Ben vengano le ricerche dell’industria privata. Ma queste sono basate sul profitto, e liberissime di non fare più una ricerca, se non ne dà. La grande ricerca deve essere di base, e statale”.

C’è un altro aspetto per cui in alcuni settori la ricerca di base non può non avere una forte impronta pubblica: il fatto che essa spesso è “in blind”, come dicono gli esperti. Cioè procede alla cieca, senza garanzie che la strada percorsa sia quella giusta; e anzi può anche – e spesso deve – fallire prima di trovare la via giusta. In un’ottica di sistema, la ricerca pubblica di base, spiega Daniela Palma, economista dell’Enea, “trasferisce conoscenza verso il privato e naturalmente avviene anche l’inverso: domande dal ‘privato’ che sollecitano la ricerca pubblica. Si innesca così un circolo virtuoso in cui le due ‘parti’ sono interdipendenti”.

Ed è qui che saltano agli occhi subito le distanze tra i diversi paesi, con l’Italia che come al solito non sta messa bene: siamo infatti molto lontani dall’Europa a 28, in cui la media degli investimenti in ricerca e sviluppo è quasi al 2 per cento del Pil, mentre noi siamo fermi all’1,34 per cento. Le differenze sono ancora più ampie con alcuni paesi: la Germania è al 3 per cento e anche la Francia supera il 2. In termini assoluti si tratta di cifre ragguardevoli: noi investiamo circa 21 miliardi di euro, la Germania quasi 90. Se poi enucleiamo il dato della ricerca pubblica, c’è da star ancor meno tranquilli: la Germania investe l’1 per cento del Pil, noi la metà. Il risultato di queste (non) scelte in termini d’innovazione si può vedere, ad esempio, nei dati che riguardano i brevetti. Nel 2016 in Italia ne sono stati registrati 4.166, 10.486 in Francia e addirittura 25.086 in Germania: ben il sestuplo.

Investiamo in ricerca 21 miliardi di euro, la Germania quasi 90

“L’aspetto preoccupante – riprende Palma – è il trend. Quasi tutti gli altri paesi negli anni di crisi hanno incrementato la spesa, da noi invece assistiamo a tagli continui. Se poi guardiamo fuori dall’Europa il dato è ancora più eclatante: in Cina gli investimenti sono quasi tutti pubblici e si stanno avvicinando al 2 per cento del Pil. Tra poco supereranno persino gli Usa”.

Il trend discendente degli investimenti pubblici è particolarmente grave in un paese come l’Italia che, ci ricorda Gabriele Giannini, della Flc Cgil, “ha una scarsa tradizione nella ricerca privata. La nostra industria ha resistenze a far ricerca perché compete generalmente sulle produzioni di gamma bassa. Le scelte della politica sono miopi, perché invece ogni euro investito in ricerca produce redditività, ricchezza e proietta il paese in avanti”. Pesa anche la scarsa dimensione delle aziende: la ricerca di un certo livello si fa nelle grandi imprese, dove anche i costi si ottimizzano meglio: “L’Italia – riprende l’economista dell’Enea – non si è sviluppata a sufficienza nei settori innovativi (farmaceutico, biotecnologico o nel campo delle nuove tecnologie energetiche) che, fisiologicamente, richiedono una spesa più sostanziosa in ricerca e una dimensione media elevata. Insomma: che le nostre imprese siano piccole non è casuale, ma è un fattore legato a scelte precise. Per crescere, dunque, bisogna puntare sulla ricerca, ma anche favorire l’allargamento produttivo”.

Servirebbe una cabina di regia pubblica per governare le risorse a disposizione

Naturalmente, non si tratta solo di quantità di investimenti, ma anche di qualità e di organizzazione della spesa. Ne è convinto Nicola Vanacore, dell’Istituto superiore di sanità, tra i massimi esperti in Italia di Alzheimer e patologie collegate alla demenza senile: “In questo campo, voglio premettere, così complesso e incerto, il ruolo della ricerca pubblica è di primaria importanza. A questo proposito secondo me manca una cabina di regia. Sulla demenza, per esempio, ci sono finanziamenti che vengono dal Miur, dal ministero della Salute e dall’Aifa. Ma nessuno oggi è in grado di dire con esattezza qual è la somma totale dei finanziamenti dedicati alla ricerca in tutte le sue articolazioni”.

Specie su un terreno come quello sanitario, la cabina di regia pubblica serve anche a coordinare le diverse strade che è utile percorrere, quali scartare perché non portano risultati, quali battere con maggiore insistenza: “Bisogna tenere insieme ricerca di base e ricerca clinica, e poi ‘tradurne’ i frutti negli ambulatori arrivando, attraverso i medici di base, alle famiglie. Ma per fare questo serve una cabina di regia che sia pubblica e governi l’intero sistema”, osserva Vanacore. Condivide questo punto di vista Giannini: “Abbiamo provato a introdurre un ragionamento di questo tipo quando abbiamo discusso della riforma degli enti di ricerca realizzata con il dlgs 218 del 2016, ma purtroppo non si è arrivati a nessun risultato”.

A essere chiamato in causa, naturalmente, è il ruolo della politica. Perché quando si ragiona su questi temi non si può non ricordare, immancabilmente, la situazione in cui versano i nostri enti di ricerca, sottofinanziati e perennemente a caccia di bandi e fondi europei, attività che spesso finisce per sottrarre tempo prezioso per quello che dovrebbe essere invece l’obiettivo primario: studiare e sperimentare. Pesa anche la questione del precariato: 10.000 dei 20.000 addetti degli enti sono precari, per la maggior parte da troppi anni. “Qualcosa con l’ultima legge di bilancio si è mosso – riconosce Giannini –. È stato costituito un fondo per le stabilizzazioni che per quest’anno prevede 13 milioni e mezzo e l’anno prossimo, almeno sulla carta, dovrebbe arrivare a 57 milioni. Alcuni enti, come l’Inap e l’Ispam, hanno avuto dei fondi specifici e per gli enti che dipendono dal Miur i fondi premiali accantonati per il 2016-2017 sono stati ridistribuiti senza essere vincolati da un meccanismo premiale, ma finalizzati alle stabilizzazioni. Certo, è ancora troppo poco, è solo una base da cui partire”.

Diecimila dei 20.000 ricercatori sono precari. Qualcosa si è mosso in legge di bilancio, ma è poco

Come al solito è nelle storie delle persone che meglio si vede il lato grottesco, se non tragico, di questa situazione. Esemplare, da questo punto di vista, il racconto di Daniela Gaglio, che lavora al Cnr e si occupa di ricerca oncologica ad altissimo livello: “Stiamo brevettando una terapia innovativa per il carcinoma polmonare che è nata in un modo un po’ particolare. A Boston, al Mit, ho imparato con un gruppo di ingegneri chimici a utilizzare una tecnica che si chiama metabolomica e che lì veniva utilizzata soprattutto sui batteri. Al ritorno in Italia abbiamo iniziato a sperimentarla sul carcinoma polmonare, lavorando sulle vie metaboliche. Così abbiamo selezionato due farmaci che con una terapia combinata sono in grado di inibire la proliferazione cellulare e quindi la crescita del tumore. Abbiamo completato tutta la parte preclinica e siamo prossimi a depositare il brevetto”. Una ricerca di questo tipo non può che essere pubblica. Il perché è molto semplice: “Un privato ci chiederebbe di usare un certo tipo di farmaco, mentre la ricerca pubblica ti permette di procedere come vuoi. I due farmaci che stiamo utilizzando li abbiamo scelti esclusivamente in base alla loro efficacia, le aziende produttrici neanche lo sanno”.

Tutto bene, se non fosse che Gaglio – che è capogruppo della ricerca e responsabile delle infrastrutture – è precaria da ben 14 anni, 6 dei quali al Cnr. Una situazione paradossale la sua, anche perché, racconta, “in questi anni ho già rifiutato due dottorati al Mit e una buona opportunità all’istituto belga Marie Curie. L’ho fatto perché volevo fare questo mestiere in Italia”. Ma quanto può durare questa pazienza? Daniela a dicembre stava insieme agli altri precari del Cnr che a Roma per protesta si sono calati dal tetto per chiedere semplicemente di essere assunti dopo tanti anni di precariato: “A questo punto – ammette sconsolata –, se non cambia qualcosa, potrei davvero decidere di andarmene”.

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Situazione complicata anche all’Ingv, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia: 900 ricercatori che studiano i movimenti della terra di cui ben 200 ancora precari. “In base alla legge 225/92 facciamo anche parte del servizio nazionale di protezione civile, un’attività che svolgiamo in convenzione – racconta Franco Obrizzo, che lavora all’istituto –. Ebbene con i vari tagli e spending review, in dieci anni i fondi sono stati dimezzati. Eppure continuiamo a svolgere il nostro lavoro con impegno e dedizione”. Anche in questo caso il ruolo pubblico è fondamentale: “Pensate quanto è importante individuare subito l’epicentro di un terremoto per innescare tutti i soccorsi. Nonostante questo, siamo costretti praticamente ad autofinanziarci, andando a cercare bandi e risorse in Europa”, conclude il ricercatore. Di storie così se ne potrebbero raccogliere e raccontare tante: si spera solo che la leggera inversione di rotta dell’ultima legge di bilancio sia proseguita e incrementata da chi presto governerà il paese.

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