Il libro di Salvatore Biasco (“Regole, Stato, Uguaglianza”, edito da Luiss, 2016) non tratta solo della crisi intervenuta nel 2007, anno a partire dal quale in molti hanno denunciato i limiti del modello economico neoclassico (qualcuno ha denunciato la distribuzione del reddito, altri l’asservimento della politica agli interessi dei pochi, così come lo svuotamento dello Stato sociale). Sebbene tutto ciò abbia un fondamento teorico, la vita di tutti i giorni e la crescita della povertà sono lì a ricordarci che la sinistra ha mancato l’appuntamento con la Storia.

Secondo Biasco, docente di Economia internazionale alla Luiss di Roma, finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neo liberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi (pp. 240-241). Per come abbiamo letto il libro, la mancata soluzione della crisi, legata alle politiche mainstream, ha un “colpevole” diverso da quello che si è soliti denunciare: la socialdemocrazia, che ha rinunciato al proprio fondamentale compito storico, prefigurare un modello alternativo e solido in contrapposizione a quello dominante.

Non proprio un dettaglio. Chiunque pensi che basti affidarsi a un po’ di keynesismo per recuperare posizioni culturali sbaglia. Il capitalismo nel tempo cambia ed evolve. Nelle crisi ricostruisce nuove fondamenta e nuovi equilibri, senza cambiare la sua matrice. Marx sul tema è stato molto chiaro: “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”.

La sinistra e la socialdemocrazia hanno sottovalutato il tema culturale della distribuzione del reddito e della “privatizzazione” della politica pubblica. Reagan non ha adottato all’inizio del suo mandato politiche “reaganiane”. In quanti si ricordano il doppio deficit (bilancio federale e commercio con l’estero)? Il contrario delle “suggestioni” veicolate nella propaganda. Solo l’Europa sussume la matrice liberista reaganiana (pareggio di bilancio, flessibilizzazione del mercato del lavoro, deregolamentazione, contrazione del ruolo dello Stato, senza dimenticare il divorzio tra Banca Centrale e Tesoro), mentre in quel Paese c’è il dominio del doppio deficit.

Polemica per polemica, negli Stati Uniti non si sono mai sognati il divorzio tra Fed e Tesoro. C’è un limite anche alle politiche neoliberiste che gli stessi suoi sostenitori conoscono molto bene. Mario Monti, introducendo il pareggio di bilancio nella Novella Costituzione, ha mostrato solo “l’ignoranza e la spocchia di certa classe dirigente”. Chi ha approvato la norma, dove lo collochiamo? Ma soprattutto: qual è l’effetto di struttura della propaganda mainstream? Quando il privato domina, anche le pratiche pubbliche diventano private (p.31), e le classi beneficiate o dominanti possono trasmettere la propria visione del mondo e farla divenire egemone (p. 39).

Sebbene il neoliberismo è il risultato di un processo storico, la “vittoria” del neoliberismo è, innanzitutto, rintracciabile nelle istituzioni informali del capitale (cultura e ambizioni della società); sostanzialmente un problema antropologico. Non a caso, Biasco denuncia la socialdemocrazia non solo per la scarsa resistenza al modello neokeynesiano, ma soprattutto per la rinuncia nel misurarsi sul tema quando è stata chiamata a riformare (adeguare) il modello stesso. Una sfida culturale, che poteva almeno essere contrastata se sostenuta da un’adeguata riflessione.

La socialdemocrazia europea ha molte colpe, in particolare l’abbandono culturale di una visione del mondo, che ha aperto un’autostrada (senza pedaggio) al liberismo. Cosa ricorda e/o ribadisce Biasco nel libro? Sebbene il modello mainstream sia caduto in disgrazia nel 2007, la nascita di un nuovo paradigma necessita di un lavoro culturale, accademico e politico enorme; questo lavoro risulta ancor più difficile se abbandoniamo la ricerca di un’idea-visione del mondo.

Senza trascurare i tanti e importanti temi trattati nel libro, per esempio gli effetti catastrofici di un’eventuale uscita dall’euro dell’Italia (che condividiamo), suggeriamo lo studio di Note per la ricostruzione di un pensiero economico alternativo. Biasco sottovaluta il suo contributo sul tema; questa parte del libro è fondamentale per delineare almeno una cornice di un piano di lavoro di quello che definiamo le microfondazioni della macroeconomia. Non tanto e non solo per la naturale impossibilità dell’analisi neoclassica di stilizzare o descrivere il sistema economico per come funziona realmente, piuttosto per la difficoltà di trattare e quindi interpretare correttamente un concetto che evolve nel tempo.

La totalità non è la semplice somma delle sue parti. Sebbene la rappresentazione della società e del comportamento aggregato dell’economia non possa prescindere dalle parti che lo compongono… la loro interazione risulta in caratteristiche non prevedibili a partire dalle parti medesime e non riconducibili necessariamente ad esse. L’opposto dall’agente rappresentativo. Macroeconomia e microeconomia devono trovare un equilibrio superiore rispetto alle fondamenta microeconomiche della macroeconomia.

Ricordiamo alcuni lavori di Leon e Pasinetti, senza dimenticare Sylos, che indagavano la struttura e gli effetti macroeconomici di alcuni comportamenti delle imprese. I lavori di questi autori hanno permesso di cogliere la relazione tra dinamica economica (apprendimento per Pasinetti, tecnica superiore per Leon, oligopolio e tecnologia per Sylos) e domanda effettiva, che non possiamo piegare al solo consumo e investimento.

Il piano di lavoro di Biasco è il seguente: mettere in sequenza logica catene non molto lunghe di relazioni causa-effetto che catturino i punti di trazione – frizione/squilibrio – e riducano l’analisi a un nucleo di preposizioni semplificate e compatte, nonché solide sul piano conseguenziale… una teoria trova plausibilità e alimento in quanti più fenomeni microeconomici attraversa, o riesce a ricomprendere al suo interno… una volta calata in una società complessa e differenziata…

Quale è il punto sollevato da Biasco, come da altri economisti? Un contesto economico dominato dall’instabilità necessita dello sviluppo di un paradigma dell’instabilità, indagando l’instabilità per come essa si manifesta all’interno della dinamica economica. Dobbiamo studiare l’economia, quindi il lavoro, permanentemente non in equilibrio, nella consapevolezza dell’irreversibilità delle decisioni prese. L’esito di questa ricerca non lo conosciamo. L’economia è una scienza sociale e le relazioni sociali, le ambizioni e le aspettative, hanno un ruolo importantissimo. Biasco ci ricorda che il disequilibrio iniziale conduce più probabilmente a ulteriore disequilibrio, anche se di natura diversa…

In altri termini, la dinamica economica cambia le istituzioni del capitale (informale e formale). L’instabilità è endogena ed è connessa alle concatenazioni interne dei fenomeni: se si tiene conto dei nessi stringenti tra l’evoluzione macroeconomica e la struttura finanziaria e viceversa, le causazioni, lasciate a se stesse, possono essere a spirale divergente, almeno in potenza... (alla fine finanza ed economia reale non abitano in due mondi separati).

Il sistema economico fondato sull’instabilità, diversamente dall’equilibrio, necessita di una teoria dell’instabilità fondata sull’incertezza. Il governo dell’incertezza è il piano normativo della ricerca economica. Quando ragioniamo di economia pubblica dobbiamo ri-discutere l'intero piano teorico dell'economia. L’economia pubblica deve partire dal contesto generale dominato dall’incertezza, e dallo stato di sfiducia degli operatori; se il grado di fiducia è la cornice in cui si muove l’intero processo economico, ne deriva che gli aspetti normativi dell’azione pubblica pongono alla politica economica il compito di muoversi in una direzione tesa a rafforzare la fiducia medesima, dominare la complessità e ridurre l’incertezza… questa è la chiave che presiede alla crescita e alla stabilizzazione. È un modo per dire che la Storia e la ricchezza delle idee, scevra da tentativi parametrici, è fondamentale per formulare un paradigma alternativo e solido (pp. 106-111).