“In tutta Europa si segnala un ritorno al nazionalismo. Soprattutto nei paesi dell'Est, cioè in quella parte del continente che ha avuto i maggiori benefici dal processo di allargamento e di unificazione, e che appunto ha riconquistato libertà, democrazia e diritti attraverso il processo d’integrazione dell'Europa. I segnali sono preoccupanti: sta tornando l’idea che la soluzione dei conflitti sia nella dimensione della ‘piccola patria’, del cortile di casa, con la paura per il diverso, lo straniero, l'immigrato, a tenere assieme il popolo”. A dirlo, ai microfoni di RadioArticolo1, è Fausto Durante, responsabile delle Politiche europee e internazionali della Cgil.

Le nostre società - ha continuato - stanno affrontando in modo inadeguato i flussi migratori. Oggi, nell'epoca della grande crisi globale, questi vengono vissuti come una minaccia allo status quo, un attacco ai diritti sociali e alle condizioni di welfare conquistati nei paesi più avanzati, la messa in discussione della propria condizione”. Per Durante, “siamo di fronte al fallimento della globalizzazione e dell’economia libera da freni e vincoli, e questo mancato governo della globalizzazione sta producendo l’impoverimento dei ceti medi, la crisi del proprio reddito, la mancanza di certezze sulla propria prospettiva, il peggioramento reale delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Questo è il fallimento dell'Europa: non avere compreso che un governo della globalizzazione e una politica economica diversa, non improntata all'austerità e all'ossessione per la disciplina di bilancio, avrebbe potuto permettere piani di integrazione, di accoglienza e di realizzazione per i migranti”.

Analizzando i flussi migratori, la composizione dei milioni di rifugiati nel mondo, la Cgil fa notare che “la prima ragione per cui si scappa dal proprio paese è la guerra. La Siria ha prodotto sei milioni di rifugiati negli ultimi anni, e ogni conflitto è incubatore di fame, miseria, paura, morte. Del resto, se io fossi il genitore di un bambino siriano la cui casa viene bombardata prima da uno schieramento, poi da un altro, infine da uno dei tanti eserciti irregolari che nel Medio Oriente si mettono al servizio del combattente di turno, è ovvio che cercherei di scappare, innanzitutto per salvare la mia vita e quella di mio figlio”.

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La seconda grande ragione è invece la condizione economica: “Gran parte dei Paesi del Nord, del Centro e della parte equatoriale dell'Africa soffrono di una miseria e di una fame ancora di proporzioni gigantesche, mentre in Centro America le economie viaggiano a ritmi assolutamente non compatibili con quelli di condizioni dignitose di vita e di lavoro: la ricerca di ‘pane e lavoro’, cioè la possibilità di vivere e operare in condizioni dignitose, è dunque l’altra grande ragione”.

Va poi valutata quanta parte di questo flusso migratorio sia determinata “dalle politiche sbagliate, dall’ipocrisia e dalla falsa coscienza dell'Occidente, che in tanti casi interviene in quelle aree del mondo solo per accaparrarsi beni e risorse”. Per Durante “dovremmo pensarci quando vendiamo forniture militari a paesi che sono in conflitto, magari anche senza il mandato delle Nazioni Unite. L’esempio dell'Arabia Saudita è clamoroso: questo Paese sta facendo da anni una guerra contro lo Yemen, al di fuori di ogni mandato dell’Onu, ed è giustamente accusato di diverse violazioni dei diritti umani. Sono due condizioni che dovrebbero impedire a Paesi come l'Italia e la Germania di vendergli armi, cosa che invece continua ad accadere: a questo punto, almeno non ci meravigliamo se gli yemeniti cercano di fuggire e li ritroviamo nelle nostre città”.

L'Italia - afferma il sindacalista - ha affrontato per troppo tempo da sola un’emergenza di carattere umanitario, sociale e sanitario. Con un’Europa che, mentre ci rivolgeva grandi apprezzamenti di facciata, in realtà girava la testa da un'altra parte e non si rendeva conto della gravità del problema, in qualche caso addirittura assecondando le tendenze al rifiuto, basti pensare all’opposizione dei paesi del Centro e dell’Est alla suddivisione su base nazionale delle quote di immigrati”.

Questo non ha riguardato solo la politica, ma anche il sindacato: “Abbiamo fatto fatica a convincere tante organizzazioni europee che affrontare il tema dell'immigrazione era una questione che impattava direttamente le condizioni sociali, la sostenibilità dei sistemi previdenziali e di welfare, il mercato del lavoro. Ad esempio, se ogni anno arrivano milioni di persone irregolari, e questi milioni di persone vengono reclutati dal mondo dell'impresa malata e dal lavoro nero come ‘un esercito di riserva’ da sfruttare, senza contrattazione collettiva o paghe dignitose, ecco che stiamo mettendo a rischio i sistemi nazionali di contrattazione e di protezione sociale”.

Il compito dei governi dovrebbe invece essere quello di “bloccare ogni forma di contrasto e di odio etnico e razziale, favorendo invece l'integrazione e la coesione sociale. Nei prossimi vent’anni, il calo demografico continuerà, e si prevede una quantità di posti di lavoro disponibili in molti settori dell'industria manifatturiera e del lavoro di cura. Una politica lungimirante dovrebbe quindi ragionare di andamento demografico e invecchiamento attivo, partendo dall’assunto che il nostro stato sociale avrà un futuro se saremo in grado di finanziarlo ancora, aprendoci quindi al contributo di chi continuerà a venire nel nostro paese. Occorre dunque non cedere alla tentazione di mollare dal punto di vista dei princìpi, perché questo è ciò che vogliono le forze autoritari e xenofobe, che sul disagio sociale e sull'egoismo delle politiche liberiste stanno realizzando le loro fortune elettorali”.

Per la Cgil, “bisogna fare l'opposto di ciò che si è fatto negli ultimi anni in Italia, tagliando i fondi per la cooperazione internazionale e per lo sviluppo delle aree più arretrate, senza dare impulso sufficiente ai programmi di aiuti umanitari e di cooperazione. È esattamente questo che chiediamo al governo. Abbiamo già presentato una richiesta di finanziamento per attività di cooperazione internazionale che Cgil, Cisl e Uil, assieme a diversi altri partner europei, continuano da anni per favorire la presa di coscienza, e lo sviluppo di pratiche sindacali nelle aree meno favorite del mondo. Dobbiamo smettere di finanziare paesi che hanno nella guerra e nel conflitto armato la loro ragion d'essere. E passare da una semplice contemplazione della situazione esistente ad azioni positive che permettano davvero alle economie dei paesi più arretrati di cominciare a crescere”.